Chi si chiede cosa si fa qui si rassereni: esattamente non lo sa nessuno.
Io ci metto qualche parola e qualche foto.
Con un'unica regola: solo finché mi fa felice.

domenica 20 aprile 2014

Si rinasce un po' tutti, dopo il letargo... Buona Pasqua!

Dopo qualche settimana di assenza - un'assenza ricca e piena, fatta di tutto quello che non si può battere a computer! - eccomi ad augurarvi una buona Pasqua. Che è come augurare una corsa sotto l'ultima pioggia leggera, mentre timido spunta il sole, o una lunga passeggiata in salita che finisca nel panorama più vertiginoso possibile. Buon risveglio da quel letargo che a volte ci piace tanto, ma poi ci fa venire un'irrefrenabile voglia di andare.





Buona Pasqua a chi per mesi l’ha pazientemente attesa
per la carta variopinta, il cioccolato e la sorpresa;
buona Pasqua a chi per ora, nelle uova colorate,
vede il senso della festa che è a metà tra inverno e estate.
Buona Pasqua a chi la Pasqua non l’ha mai capita tanto:
non è al pari del Natale, col suo eccezionale incanto,
non è come a Ferragosto (anzi, a Pasqua piove spesso!)…
per qualcuno, non ci fosse, quasi quasi fa lo stesso.

Buona Pasqua a chi ha la fede, buona Pasqua a chi l’ha persa,
buona Pasqua a chi la cerca o a chi la vuole un po’ diversa,
buona Pasqua a chi è da solo ma ha bisogno di un abbraccio,
buona Pasqua a chi si chiede “ma avrà senso quel che faccio”?
Tanti auguri a chi, stremato, sogna solo le vacanze,
buona Pasqua a chi per Pasqua coprirà grandi distanze
per riunirsi coi parenti con un solo desiderio:
di raggiungerli col cuore… di raggiungerli sul serio.

Buona Pasqua a chi riposa e non chiede più di questo,
ma ha il sospetto che la Pasqua abbia dentro anche del resto.
C’è chi crede in qualche cosa e c’è chi non crede a niente,
c’è chi corre alla ricerca di un amore che non mente,
chi si sente un po’ arenato e ha bisogno di una spinta,
chi ha bisogno di frenare dopo mesi tutti in quinta.

C’è un sentore, dolce e grande, che però accomuna tutti:
è la voglia prepotente di tornare a dare frutti,
è un bisogno di riscatto, della nostra primavera,
è il bisogno di sapere che anche quando si fa sera
c’è un mattino che ci aspetta, e su questo non ci piove.
Siamo rami scricchiolanti ma con gemme sempre nuove.
È una voglia con un nome… non mi sembra presunzione
dire chiaro che abbiam voglia tutti di resurrezione.

Accipicchia, ho esagerato? Mi son fatta trasportare…
è che ho un’anima esigente, non si riesce a accontentare.
Si rinasce a proprio modo: ci si arrabbia, un po’ si muore,
poi però, dopo la neve, sul balcone spunta un fiore.
Il dolore esiste eccome, ce l’abbiamo dentro e intorno,
non è facile affrontare l’avventura di ogni giorno,
ma nell’ottica infinita di una vita tutta intera
ogni anno c’è la Pasqua… torna sempre primavera. 


Buona Pasqua a tutti!

mercoledì 2 aprile 2014

Prima di te, non lo avevano ancora inventato



C’è quel momento in cui hai bisogno che le parole siano carezze. È una fase: ci si passa. Io, almeno, ci sono passata. Hai bisogno che le parole ti proteggano, ti rassicurino; ti definiscano anche un po’. È la fase in cui dici “andiamo a prenderci un caffè” anche se il caffè non ti è mai piaciuto, perché “andare a prendere un caffè” sembra un rituale così bello e così ampiamente condiviso, così legittimo, che sei sicura di averne bisogno anche tu, ed è importante che si chiami proprio così. È quando la sera ordini un Margarita e ti compiaci di quanto sia languido quel nome – Margarita - e quanto ti piace dirlo con noncuranza studiata – Margarita - perché ti immagini che l’eroina dei tuoi pensieri, quella che vorresti essere e far vedere al mondo, ordinerebbe quello e lo direbbe così. È una fase strana, non è sempre facile. Perché aspetti certe parole e ne arrivano altre; magari arriva un silenzio ma avevi previsto un “ti amo” o un “sei bellissima”, “stai bene così”, e Dio solo sa quanto ne avevi bisogno, e quanto è indicibilmente pesante la giornata – la vita – senza quelle parole lì. Quanto assomiglia all’infelicità. È una fase in cui dici “bene”. Ti chiedono come stai e neanche li lasci finire, dici “bene”, cos’altro dovresti dire? Esiste una risposta, una parola più brava a coccolare te e chi hai di fronte in un colpo solo? A cullarvi, senza che dobbiate ferirvi, senza andare a scavare laggiù, che alzereste un gran polverone ma non ne ha voglia nessuno, davvero. È la fase in cui vuoi sapere cosa sei. Vuoi un’etichetta, ce l’hanno tutti, come farai tu senza la tua etichetta? Senza il tuo titolo, la tua laurea, senza una bella lista di abilità da snocciolare sul curriculum, nero su bianco? E non basta mica dire cosa vuoi fare, cosa sogni, per cosa piangi: bisogna dire che cosa sei. Ci vuole una parola che ti metta al mondo, altrimenti cosa vuoi pretendere.

Poi finisce. Tranquilli, davvero. Finisce.

Come un rumore di fondo che quasi non sentivi più: un ronzio, un soffio, un fruscio costante, di quelli che ci sono ma ormai li hai dimenticati, tipo la ventola del computer o il lamento del frigorifero. Quando finiscono è un sollievo, è una liberazione. Non li sentivi, andava bene così, ma quando se ne vanno è meglio, è una vita nuova. “Che bel silenzio!” Ti viene da dire. Che bella vita, improvvisamente, quando etichettare le cose ti interessa un po’ meno. Quando vuoi essere una poesia, e non t’importa se il mondo non sa leggere. Quando non si tratta di ricalcare un capolavoro, ma di sbizzarrirti nel tuo scarabocchio. Di fare il tuo disegno. E certo che non ha nome e non ha prezzo, per forza: prima di te, non lo avevano ancora inventato.