Chi si chiede cosa si fa qui si rassereni: esattamente non lo sa nessuno.
Io ci metto qualche parola e qualche foto.
Con un'unica regola: solo finché mi fa felice.

lunedì 24 marzo 2014

La parola desiderio ha a che fare con le stelle

Desiderio è forse la mia parola preferita. Per molti motivi, ma uno soprattutto: in 9 lettere condensa le storie degli uomini e la storia del mondo, parla di noi e parla dell’universo, dice quello che vorremmo, quello che abbiamo e quello che ci manca. È un concetto familiare, come “mamma”, come amore, come il profumo del caffè la mattina o quello dell’erba tagliata. Però, nello spazio di 9 lettere e 4 sillabe, senza che ce ne accorgiamo, schizza verso il cielo, le stelle, altri mondi.

Perché potremmo spendere pagine e pagine a definire il desiderio, chiederci che cos’è e che cosa significa.
Ma alla fine il desiderio è fatto di “de” + “sidera”, e questo dice già tutto.
“Sidera” significa stelle, e quel “de” è una particella che indica allontanamento da qualche cosa. Non lontananza, ma allontanamento: non semplice assenza, ma separazione. La parola desiderio ha a che fare con le stelle, ma non dice che non le abbiamo… dice che non le abbiamo più.

Un pezzettino di stelle, se davvero le abbiamo avute, deve esserci rimasto in tasca per sbaglio. Una scheggia tra le dita, un granello fra i capelli, che ne so. E in effetti,  a guardarle lassù - così lontane e perfette - un magnete si attiva, e all’improvviso sembra chiaro che con loro, in qualche modo, c’entriamo anche noi.

(continua sotto...)



La parola desiderio ha a che fare con le stelle.
Con lo sguardo che va al cielo vedi il buio, vedi quelle,
e hai la sensazione strana che in passato le hai toccate:
familiari come cose possedute e poi scordate.

Ogni tanto, nella noia, un indizio sorprendente
sembra andare a risvegliare qualche cosa di potente
che ci scava dentro il petto, non si placa, batte forte,
sembra dirci che siam fatti per sconfiggere la morte,
per volare, per gridare, per cantare a squarciagola
la canzone di una vita che è infinita ma è una sola.

Desiderio è quella cosa che vuoi sempre, e ti possiede,
una musica lontana che ti fa battere il piede
anche se non sei sicuro… non sai bene che cos’è:
ha i contorni un po’ sfocati, ma decisamente c’è.
Indomabile, mai sazio, non ha fine il desiderio…
forse quello che ci chiede è di prenderlo sul serio,
di decidere una volta se far come fosse niente
o provare ad inseguirlo e cercare la sorgente.

Io ho deciso di partire. Il bagaglio è quasi vuoto:
basta poco per un viaggio verso un desiderio ignoto.
Serve voglia di capire cosa ci alimenta il cuore,
serve qualche bel ricordo, qualche affetto, qualche errore,
serve un sogno grande e bello, che sia veramente mio,
e ovviamente, per partire – vera e sveglia – servo io.

venerdì 21 marzo 2014

Benedetta Primavera


Siamo semplici e infiniti, così semplici e assetati che nessuno di noi sarebbe stato capace di crearci. 
È troppo difficile una semplicità così bella per essere inventata sulla Terra. 
Complicata. E semplice. Si capisce che siamo semplici perché ci basta un po’ di sole in faccia. Una musica in testa. Ci ricordiamo che vogliamo proprio essere qui, e ci sentiamo amati o al massimo, se non lo sentiamo, capiamo quanta voglia ne abbiamo. Di essere amati dico. Non c’è muro che tenga, maschera o gioco di ruolo: il sole ci trafigge il cuore, sempre, e ci ferisce come feriscono le cose vere. Che fanno piangere e ridere insieme. Ci ricordano che siamo umani, e non importa se ci fanno sorridere o desiderare la morte: alla fine è sempre l’amore che sentiamo. Come presenza o come assenza. 
L’assenza più presente che ci sia.

Buon primo giorno di Primavera a tutti!

mercoledì 19 marzo 2014

Il mio babbo preferito

Sì lo so, la festa del papà è l'ennesima festa del consumismo. Ma se al mio gli regalo una filastrocca, tanto male non può fare...



C’era già prima di me, e magari mi pensava.
Me lo immagino ragazzo, che rideva, che cantava,
con la sigaretta accesa e la giacca in pelle nera,
jeans a zampa di elefante e un’indomita criniera.

Tante cose, son sicura, non se le era immaginate:
si potevano evitare un bel po’ di litigate,
qualche giorno di sconforto, la caduta col motore,
questa crisi che ogni giorno butta a terra il buon umore,
salutare i genitori – che per me poi erano i nonni –
e le notti così fonde da passare quasi insonni.
E d’altronde questo è il prezzo per chi vive e non è solo:
qualche volta forse sogna di poter spiccare il volo,
metter pausa alle fatiche e scappare in capo al mondo…
ma tra i compiti di un babbo c’è di andare fino in fondo.

Mi piaceva, da bambina, la sua barba profumata,
mi piaceva se chiedeva che facessi una sfilata,
mi piaceva far la lotta tutti insieme sul lettone,
mi piaceva condividere un gelato di limone.
Mi sentivo quasi eletta, fortunata a dismisura,
perché solo lui sapeva certe storie di paura,
ma il regalo più gradito, se era la giornata giusta,
era quando mi portava una bella Super Busta.

Oggi è serio sul lavoro, fa la voce un po’ impostata,
ma se a casa si rilassa la baldoria è assicurata,
soprattutto se si fanno scherzi e coccole al cagnetto
(neanche fosse un nipotino, è il suo maschio prediletto).
Quello che mi piace adesso - non vorrei niente di meglio -
è se torno a casa tardi e lo trovo ancora sveglio.
Ci mettiamo lì vicini, con Formigli o con Santoro:
quattro chiacchiere veloci, poi diciamo sogni d’oro
La mattina, a colazione, mi prepara la spremuta,
se c’è tempo mi racconta di quel casco o quella tuta
da centauro che ha acquistato per le gite dell’estate,
poi si alza e va al lavoro dopo averci salutate.

La famiglia te la becchi, non si può selezionare…
qualche volta noi tre donne l’abbiam fatto tribolare!
Ma ringrazio, col sorriso, il destino che ci ha unito:
Non ci siamo mica scelti… ma è il mio babbo preferito. 

lunedì 17 marzo 2014

30 giorni di sorprese!




Perle e Rime compie un mese e avrei potuto inventare una bella filastrocca. Di filastrocche ne ho due o tre in cantiere, salvate nella cartella "da finire", ma per fortuna oltre alle rime posso concedermi qualche perla: il titolo me lo permette. Che siano perle o accozzaglie di parole poco importa... io stamattina ho voglia di dire una cosa, e ho bisogno di dirla in prosa.

L'idea di Perle e Rime l'ho avuta l'estate scorsa. Ero su uno scoglio, davanti al faraglione: l'ho raccontato a lui con noncuranza, come si raccontano molte cose destinate a volare via. Mi ha detto "secondo me dovresti farlo"
Aveva ragione. Perché in un mese ho perso qualche ora di troppo davanti al computer, a volte sono andata a letto troppo tardi per colpa di facebook, almeno 10 volte ho pensato "questa è brutta, non piacerà a nessuno" e altre 10 mi sono chiesta "ma avrò qualcos'altro da dire?".
Però c'è di bello che non siamo isole, non galleggiamo da soli in qualche mare immenso: c'è sempre qualcuno che ci guarda e ci ascolta, e tutto quello che facciamo - piccolo o grande - si scontra con la storia e l'anima di un altro. Allora fai una sciocchezza - tipo, scrivi una filastrocca - e ricevi un mazzo di sorrisi, una manciata di commenti, qualche saluto inaspettato. Le cose prendono quella piega che non solo non avresti previsto, ma nemmeno avresti saputo inventare... eppure, con la fantasia, pensavi di cavartela bene!

Allora buon giorno a tutti quelli che anche oggi si aspettano qualcosa, ma poi saranno felici di incontrare qualcos'altro.

Vi lascio qualche pensiero scritto un paio di mesi fa... sul fare, sul cercare, e su tutti quei progetti che ci riempiono la testa.
Ci sono tante Eleonore nella mia testa. Un mazzo di carte da cui forse potrei ancora pescare: un ricco ventaglio di possibilità. C’è l’Eleonora che sarebbe potuta fuggire all’estero per un po’, studiare le lingue e conoscere facce colori sapori e immagini diverse dalle solite, e ora potrebbe parlare l’inglese più fluently e avrebbe una visione più ampia, forse, di tutte le cose, e sarebbe un po’ più cittadina del mondo. L’Eleonora che avrebbe potuto salutare il fidanzatino dell’adolescenza quando ancora quell’adolescenza non era finita, e provare altri abbracci, e provare altre notti, e forse oggi conoscere gli uomini con più esempi e dettagli a disposizione, e meno ingenuità e poesia. Ho in mente l’Eleonora che poteva scegliere architettura, e chissà, forse sarebbe diventata un po’ più brava nelle materie scientifiche e avrebbe una posizione un po’ più prestigiosa – prestigiosa in che senso, e per chi, non è poi dato saperlo – oppure l’Eleonora che dopo Lettere avrebbe potuto tentare il giornalismo e magari ce l’avrebbe fatta, magari oggi avrebbe moltissimi contatti in agenda e avrebbe migliorato la dizione e il portamento, e potrebbe anche dire la sua in qualche contesto che non sia una tavolata di amiche, un tè pomeridiano, una pagina facebook. Poi c’è l’Eleonora che avrebbe potuto imparare a suonare qualcosa, il piano, la chitarra, la batteria come sognava al liceo, e l’Eleonora dello sport, che avrebbe potuto continuare con l’atletica o forse - meglio - con la ginnastica ritmica. C’è anche quella che avrebbe potuto scegliere una scuola più inerente alla vita, e dopo le superiori avrebbe evitato l’università, e oggi forse avrebbe un conticino in banca un po’ più sostanzioso e bo, una casa? Un marito, un bambino? Ma anche l’Eleonora che avrebbe potuto mollare tutto, e partire alla volta del mondo non per una parentesi limitata, ma per andare a fondare quella scuola di yoga oltreoceano, o quella piadineria, o quel caffè letterario e altri simili sogni. C’è pure l’Eleonora che avrebbe potuto dire qualche “no” agli impegni all’oratorio, avrebbe potuto leggere di più ciò che le andava, viaggiare di più verso le mete che preferiva. Quella che avrebbe potuto ubriacarsi una, dieci, cento volte di più, farsi una canna, cercare quel brivido che a trent’anni sembra un po’ triste cercare.
Mi fanno impazzire queste Eleonore: questo squadrone di scatenate così traboccanti di progetti, e così povere di verità. A volte mi tengono sveglia di notte. Mi vengono a trovare all’improvviso, reclamano un po’ di attenzione. Ma poi succede, inevitabilmente, che vengono zittite da tutto quello che c’è. Perché quello che c’è – anche quando è ordinario, anche se sembra banale - è molto più emozionante di quello che ci sarebbe potuto essere. Dà i brividi, a pensarci. Fa venire da ridere, e un po’ anche da piangere. Quello che c’è, è tutto ciò che esiste… e esistere, già quello, non è cosa da poco.

sabato 8 marzo 2014

Una delle donne più belle della mia vita

Nel giorno della festa della donna il regalo più bello, per me, possono farselo proprio le donne: essere donne. Guardarsi allo specchio e amare il loro essere donna. Dire a gran voce che sono donne, dirlo a tutti e dirlo sempre. Ma non tanto nelle piazze... piuttosto nella vita. Dire che vogliono essere questo, niente di meno e niente di più, perché questo è già infinito. Dirlo ed esserlo, con tutto il loro corpo e quell'anima così forte e fragile. Luminosa, agitata e immensa come il mare.

Voglio raccontarvi Luisa, una delle donne più belle della mia vita.

Luisa trucca le bimbe per la recita di quinta elementare

La mia prima Maestra è stata Luisa. Non la prima persona ad avermi insegnato qualcosa, questo no. Se la questione fosse quella dovrei parlare della mia mamma e del mio babbo, della nonna, persino di mia sorella più piccola. Ma la prima Maestra con la M maiuscola - quella figura verso cui nutri rispetto e un po’ di soggezione, quella che prende l’uragano che ha nel cuore e ti ci tira dentro sperando di lasciarti qualcosa di buono – quella è stata Luisa. Lulù. 

L’abito non farà il monaco, ma penso che Luisa non sarebbe stata Luisa senza quell’apparenza un po’ eccentrica, senza quel suo farsi notare. Me la ricordo colorata. I capelli rosso rame e le labbra rosso rubino, i gioielli d’oro, gli abiti scelti con cura. La scia di profumo: colorata anche quella, piena di estate e di autunno, di primavera e di inverno. Coloratissime le sue parole: ricche come frutti succosi, opulente come lampadari di cristallo. Cascate di aggettivi un po’ desueti e grappoli di espressioni barocche, così, che cadevano generose da quel sorriso infuocato.

Ricordo che diceva di essere vanitosa. Mi sembrava se ne facesse vanto. Io non sapevo ancora bene cosa volesse dire quella parola, “vanitosa”, ma mi venne l’idea che avesse a che fare con qualcosa di molto luminoso e piacevole. Un giardino fiorito, che so. C’entrava sicuramente con il coraggio e con la voglia di ridere forte, di dire quello che si aveva in testa. Una volta un bimbo, uno di noi della A, mi pare le disse che aveva i denti un po’ gialli. Così, senza malizia, con la sincerità disarmante e bastarda che hanno i bimbi prima di essere censurati dal mondo. Lei rispose che era il colore naturale dello smalto, e che nella sua vita non aveva mai avuto problemi di dentatura, e che i dentisti non li aveva mai visti neanche da lontano. Quella volta ci insegnò un’espressione bellissima, che usai in decine o forse centinaia di temi: “avere un sorriso di perla”. Che la perla in effetti non è proprio bianca: quella artificiale sì, ma le più pregiate non tanto. Se la cavò, insomma, con estrema eleganza, e pensai fosse dovuto al suo essere vanitosa. Era bello essere vanitose, perché significava volersi molto bene. Almeno esserlo in quella maniera, con quello stile lì. Pensai che un giorno avrei voluto esserlo anch’io.

Mangiava molte mele e molti crackers integrali. Per me voleva dire che ci teneva. A che cosa non lo sapevo di preciso, ma si vedeva che ci teneva. Non so, percepivo quello spuntino come un rituale importante, una coccola che Luisa si concedeva nel bel mezzo della lezione. Me la ricordo come se fosse qui ora: appoggiata al termosifone o alla finestra, lo sguardo attento ai suoi bimbi, e intanto sgranocchiava quei crackers da grandi. Perché ai bimbi l’integrale non piace. Ma un giorno, pensavo, sarebbe piaciuto anche a me.

Due episodi ce li ho impressi nella mente, e niente e nessuno me li porterà mai via. Ci fu quella volta che Lulù seppe di aver vinto un premio letterario importante. Eravamo in classe: era un giorno come tanti, ma le arrivò una misteriosa comunicazione. E lì ci fu lo scoppio di gioia più bello e contagioso che io abbia mai visto, perché lei non si limitò certo a sorridere o a borbottare qualche frase compiaciuta, ma levò uno strillo così acuto e così lungo che posso sentirlo ancora adesso, e lo definirei “cristallino”, che è un'altra parola un po’ magica che mi ha insegnato proprio lei. Quella mattina, con quel grido da sirena che avrebbe potuto mandare in pezzi le finestre, un’ondata di euforia si impossessò di tutti noi. Me lo ricordo bene quanto mi sentivo felice, e nemmeno sapevo bene per cosa, ma la maestra aveva urlato, aveva urlato in classe… che si sa, di solito, non si può urlare mica! Che gesto di trasgressione perfetto, che irriverenza, che affronto alla banalità delle cose di sempre! Fu come se ci avessero detto di saltare sui banchi, lanciare i quaderni al cielo, correre a rotta di collo giù per le scale e andare in giardino e poi via, marinare la scuola, così, per far festa. Proprio così: quell’urlo di felicità era una festa. Perché un grande, io, non lo avevo mai visto perdere il controllo così. Che meraviglia. Essere capaci di strillare di gioia. Non è mica una cosa da niente.

L’altra faccenda che mi ricordo è quella dei mutandoni di pizzo. Perché Lulù era fissata con le storie della guerra, e ci raccontava tante cose dell’epoca dei nostri nonni. Ci diceva che la storia non è roba lontana da leggere sui libri, ma una cosa vera e bella che c’entra anche con l’adesso. Ad esempio ci portava a scuola un vecchio ferro da stiro, di ferro veramente, con lo sportellino delle braci per scaldarlo, oppure la polenta da tagliare con il filo, come facevano una volta. Quella polenta, se mi concentro, è ancora qui che fa profumo, nitida nella mia testa come fosse davanti ai miei occhi: gialla, tonda, liscia, soda e calda come una creatura vivente. Un piccolo miracolo di farina e di acqua avvolto in un panno tiepido sulla cattedra, da tagliare a fette con il filo. Ma poi, soprattutto, ci portò a scuola i mutandoni per spiegarci che una volta, le signore, gli slippini stretti di cotone se li sognavano: sotto le gonne portavano dei mutandoni bianchi coi bordi di pizzo che avevo visto addosso solo alle bambole di porcellana, quelle che stanno sulle mensole a prendere la polvere. Avrebbe potuto portarli a scuola e raccontarcelo così, in quattro parole, e magari farceli passare di mano in mano per un tocco di realismo in più (che forse già sarebbe parso strano ai più bigotti, far lezione di storia partendo dalla biancheria intima). Ma Luisa invece no: lei se li era messi addosso e salì in piedi sulla cattedra, con la gonna sollevata, che potessimo vederli bene! Anche Robin Williams ne “L’attimo fuggente” sale in piedi sulla cattedra e invita i giovani a cambiare punto di vista di tanto in tanto. Io quel film non lo conoscevo, ero ancora troppo piccola, e chissà se Luisa ci aveva pensato o aveva tratto in qualche modo ispirazione. Fatto sta che qualche anno dopo il film lo vidi, e il professor John Keating, per quanto amabile e pieno di passione, non l’ho mai trovato più eccezionale di Luisa.

Ricordo le pagelle dove scriveva piccoli temi su di noi. Conosceva i nostri passatempi e le nostre inclinazioni, e le metteva in evidenza più dei voti. Se il luogo comune vuole che il maestro dica sempre e solo due frasi sui suoi alunni – “è intelligente ma non si applica” oppure “si vede l’impegno ma mancano i risultati” – Lulù invece raccontava le nostre imprese all’uncinetto o la nostra maestria con la chitarra, il talento nella pittura o la passione per il canto. Diceva che la persona è tutto questo, e molto di più. Che scrivere un voto non bastava, e che tutto quello c’entrava anche con la scuola. Più del catechismo, più della beneficenza che avrei conosciuto qualche anno più tardi, credo che quelle pagelle mi abbiano insegnato a dare il giusto peso alle cose e alle persone. Era almeno una prima intuizione. 

Ricordo le ore di religione passate coi vecchietti, a fargli il ritratto. Il mio vecchietto aveva delle orecchie lunghe e molli, come avesse portato gli orecchini tutto il tempo, solo che era un uomo. E sinceramente non ricordo se gli facesse piacere mettersi in posa per una piccola decenne con la coda di cavallo, ma mi viene da dire che la maggior parte dei vecchietti non ce l’ha una bambina che gli faccia un ritratto, e se non altro lui, nella sua vita, avrà avuto anche questo: la sorpresa di conoscere una maestra un po’ matta, che di raccontare la vita di Gesù non ne aveva proprio voglia e preferiva trascinare i suoi bambini in un atelier improvvisato. Che per me non era triste. Era un pezzo di vita, e come tale era bello. Certe volte, ai bambini, basterebbe insegnargli questo.

Non è mai facile raccontare cosa ti lascia una persona. Cosa ti dona, cosa ti toglie, in cosa ti cambia. Non ne siamo neppure consapevoli del tutto. Ma so che le ragazze hanno “la pelle di pesca” per merito di Luisa, e sempre per colpa di Luisa certa gente “ha le mani grandi come pale da fornaio”, l’acqua ha un suono “argentino” e l’autunno è un pittore. Quando arriva la primavera gli alberi si vestono a festa, e quando arriva l’inverno da qualche parte c’è una foglia, di nome Bandiera, che lotta contro il destino perché ama troppo la vita. Non potrò mai usare un vezzeggiativo senza temere la penna rossa di Luisa, che lo segnerebbe errore perché non c’è bisogno di ridurre tutto in –ino e in –ina, e il complemento oggetto sarà sempre e irrimediabilmente incarnato da quella frase, quella indelebile frase, di Luisa che mangia la mela. Ed è colpa sua se un antico roseto può raccontare una storia, se il suono della moka assomiglia a una musica e se ogni cosa ha un profumo, un sapore, una luce. Ancora adesso esco di casa al mattino e ho la voce di un narratore nella testa: registra ogni piega e ogni ruga del mondo, e scopre un potenziale incipit di romanzo ad ogni angolo di strada e in ogni sguardo rubato. È il mondo parlante che mi ha indicato Luisa. È il mondo in cui la scuola ha un cuscilibro, dove maestre e bambini leggono insieme l’avventura più bella.

Buona Festa della Donna a tutte!

venerdì 7 marzo 2014

Le donne che saremo #5

...continua:



Le distoglie un suono allegro, uno squillo da lontano:
è il computer di Silvietta (ce l’ha sempre sotto mano
per cercare tutte insieme qualche foto da scambiare)
che le avvisa che qualcuno sta tentando di chiamare… 
È Adriana, che sorpresa! Ci contatta con la rete!”
“Ciao ragazze! Cosa fate? Banchettate? Quante siete!”
Tecnologiche e ingegnose, anche se sono distanti
hanno fatto diventare le distanze irrilevanti:
non importa quanto passa tra Belgrado e la Romagna,
ma l’amica farmacista, a suo modo, le accompagna
e ogni volta che ne han voglia si rimettono in contatto.
Un microfono, una webcam, un pc ed il gioco è fatto!
Con quegli occhi grandi e neri, la risata contagiosa
e la voce spensierata Adri è sempre strepitosa,
proprio come quando Silvia l’ha incontrata in facoltà
e ha intuito che non era semplice casualità.
Il destino, che burlone, con saggezza e fantasia
quando vuole sa avverare anche ciò che era utopia;
muove i fili di una vita, li riavvolge ed aggroviglia,
prende ciò che era sicuro e lo cambia in meraviglia,
e fa nascere un quesito misterioso ed attraente:
“Se quel giorno avessi fatto una scelta differente,
la mia strada avrebbe preso un’inclinazione opposta?”
non c’è niente di più bello del cercare la risposta
ma capire che alla fine, in qualunque direzione,
è impossibile scoprire una vera soluzione…
con un po’ di batticuore resta un interrogativo:
“se ci siamo conosciuti, ci dev’essere un motivo”.
Se la sorte avesse scelto altri luoghi e altre persone
le otto amiche questa sera non avrebbero occasione
di sentire questa voce, così affabile e vitale,
dire: “Voglio che veniate a trovarmi per Natale!
Che ne dite di un viaggetto in un posto tutto nuovo?
Questa volta la mia casa sarà il punto di ritrovo!”
Entusiasmo, commozione, qualche chiacchiera volante
e salutano Adriana in un coro scoppiettante. 
Ripensando alla proposta, già decise ad accettare,
le ragazze, a poco a poco, si son messe a sparecchiare,
ma per completar la cena con un tenero finale
c’è un dolcetto assai invitante dal profumo un po’ speciale:
è di Elisa la ricetta dei bon bon cioccolatosi
che dai tempi della scuola stuzzicavano i golosi,
e di nuovo questa sera le palline incriminate
sono pronte sulla tavola a tentare le invitate.
“Attenzione mie compari, la ricetta è differente!
Questa volta, dopo anni, ho cambiato un ingrediente,
non a caso, state certe, ma con tanti tentativi
che all’inizio han dato anche risultati più cattivi…
il mio primo esperimento era a scopo sanitario:
mi era stato domandato da un cliente miliardario
di inventare una pralina dal sapore stuzzicante
che facesse ritornare la memoria più brillante.
Una prova, una seconda, ma non c’era proprio verso
di poter risuscitare il ricordo andato perso.
Stavo quasi per mollare, ma assaggiando un mio dolcetto
ho capito che faceva un simpatico altro effetto:
non ridava la memoria ai vecchietti smemorati,
ma gettava nuova luce sui ricordi un po’ annebbiati.
Spiego meglio: se una cosa la ricordi malamente,
e hai dei dubbi sui dettagli, sulle facce della gente,
sgranocchiando una pallina tutti i particolari,
soprattutto se superflui, torneranno forti e chiari!

A che serve ricordare ciò che è inutile e sottile?
Che domande, serve eccome! Fa la vita più gentile!
Cosa c’è di più importante dei dettagli, veramente?
del rossore su una guancia, delle voci della gente,
della luce che si insinua da una tenda piano piano,
delle fusa del tuo gatto accoccolato sul divano,
della piega un po’ speciale su una bocca col sorriso,
di un tramonto color oro e un mattino fiordaliso?”
Non aspettano un istante ed assaggiano i dolcetti
impazienti che i ricordi ridiventino perfetti…
detto fatto: basta poco, e riaprono le danze
tra racconti divertenti, episodi di vacanze,
vecchi gossip che qualcuna s’era già dimenticata,
primi baci, prime uscite e anche qualche litigata. 
“Un momento - fa Eleonora – non sarebbe niente male
se prendessi qualche appunto… avrei tanto materiale
per buttare giù una storia, o una filastrocca almeno,

che negli anni, quando serve, dia una mano a fare il pieno
di parole e facce amiche, e ci aiuti a ricordare
che crescendo non dobbiamo aver paura di cambiare.”
Cantastorie per diletto, pare che abbia mantenuto
la promessa e che quel testo non sia andato più perduto,
così come non si è persa l’amicizia che le lega.
L’amicizia, che fatica… è un illuso chi lo nega!
Ma il vantaggio d’affrontare tutte insieme un’avventura
sta nel mettere in comune il coraggio e la paura…
E le storie schiette e vere delle semplici persone
son più belle delle fiabe, tutte miele e perfezione.
The end (si fa per dire) 

giovedì 6 marzo 2014

Le donne che saremo #4

...continua: 




Son d’accordo pienamente -fa Alessandra d’improvviso-
ci son cose che a quest’ora mi risvegliano il sorriso,
ma a suo tempo, mi ricordo, non ridevo neanche un po’:
dopo la maturità mi son detta - bene, e mo’?-
Ero incerta sul da farsi, indecisa su chi ero,
mi chiedevo se la laurea la volessi per davvero
e per qualche mese strano ho pensato a Farmacia,
illudendomi che quella diventasse la mia via.
Ma con quel che avevo dentro, che c’entrava quella scelta?
Gli alambicchi e le provette li ho lasciati svelta svelta
e ho deciso di dar voce a com’ero veramente,
anche a costo di remare per un po’ controcorrente.
Risultato, dopo anni? Ho un micione dolce e bello,
un amore strepitoso e anche un po’ litigarello,
una moto con un rombo che mi sa togliere il fiato
con cui viaggio per il mondo come ho sempre sognato.
Chi l’ha detto che per essere felici c’è uno schema?
se ne fossi stata schiava sarei stata proprio scema!
Delle mie grandi passioni, del mio gatto tondo tondo,
delle amiche… non c’è niente che sia meglio in tutto il mondo!’ 
È da questo bel pensiero che traiamo ispirazione
per alzare tutte i calici e inventare un’intenzione:
“Un cin cin per i successi che sapremo conquistare,
e che queste rimpatriate non diventino mai rare!”
 
A proposito fanciulle - Marghe attira l’attenzione -
se vogliamo rivederci ho già in mente l’occasione.
Si dà il caso che tra poco, nel teatro comunale,
vada in scena un grande evento di portata culturale:
è un concorso destinato ad artisti e ballerine,
e partecipo anche io con le mie venti bambine…
quelle piccole furfanti che ho allenato in questi mesi:
faticoso, questo è vero, ma son stati bene spesi!
Il soggetto del concorso – attenzione – è il Paradiso:
quando l’han comunicato vi confesso che ho sorriso,
mi pareva complicato presentare l’argomento
ma poi ho cambiato idea e ho sposato l’alto intento.
Mi son chiesta come fare per danzare degnamente,
e riuscire a presentare il Paradiso con il niente.
Ho trovato! Mi son detta: per danzare la bellezza
non è il caso di cercare chissà quale sottigliezza,
basterà che la mia danza sia vivace, sorprendente,
che non sia un misero assolo ma una folla sorridente,
che sia un inno all’amicizia e riguardi le persone,
che coinvolga la platea, che contagi il più musone,
che si ispiri ai movimenti più spontanei della gioia…
perché anche in Paradiso, senza amici, sai che noia?
Ecco insomma amiche mie… promettete che verrete?
Ciò che conta più per me è il coraggio che darete.’
Continua... 

mercoledì 5 marzo 2014

Le donne che saremo #3

...continua: 




E di questo se ne intende molto bene una di loro,
che ha gli occhioni luccicanti dietro un ciuffo riccio e moro.
Dal periodo della scuola è rimasta tale e quale:
stesso sguardo da cerbiatta, stesso accento originale,
con il tipico sapore della terra pometina
che Annalisa ha salutato quando era ragazzina.
Si ricorda ancora bene quel momento duro e amaro,
quando al mondo le sembrava niente fosse così caro
quanto il luogo in cui era nata, la sua casa, le amichette:
le pareva che Annalisa fosse stata fatta a fette.
Come se le sue passioni, i suoi sogni e i suoi pensieri,
sradicati e trapiantati diventassero insinceri;
come se non fosse il cuore a donarle consistenza
ma piuttosto le abitudini, il contorno e l’apparenza.
Che importanza avrà mai il ‘dove’ per sentirsi più felici?
Non è meglio, ovunque al mondo, saper scorgere gli amici?
La lezione l’ha imparata e ne fa sempre tesoro
soprattutto quando affronta qualche ostacolo al lavoro:
avvocato di successo, sempre piena di clienti,
ha deciso che li vuole fare tutti più contenti,
e per questo non gli deve dare il torto o la ragione
ma piuttosto esser d’aiuto con l’amore e l’attenzione,
star vicino a chi ha bisogno con il cuore tutto aperto
e poter donare loro un conforto sempre certo.
Qualche volta arrivan coppie che vorrebbero troncare:
“Lui è distratto!” fa la donna, con la voce da comare.
“Lei mi secca!” lui ribatte, per trovare una scusante,
ma Annalisa non ha dubbi, e con tono conciliante,
dice “basta con il gioco delle colpe e dei giudizi,
chi può dire di esser privo di difetti e di stravizi?
Non è meglio far silenzio e guardarsi intensamente,
ricordandoci a vicenda come siamo veramente?
Basta anche un solo amico, che mi guarda per davvero:
nel suo sguardo riconosco quanto valgo e so chi ero.” 
Non è facile per niente riconoscere chi siamo!
-  interviene pronta Silvia, e noi tutte l’ascoltiamo -
Voglio dire che all’inizio del mio corso in Farmacia
ero certa di volere un’impresa tutta mia,
né provette ne alambicchi mi destavano interesse,
e votarmi alla ricerca non credevo mi piacesse.
Nella testa avevo chiaro ogni singolo passaggio…
ma alle volte programmare proprio tutto non è saggio.
Dopo anni di sudore, prove, studio e gran ripasso,
sempre un poco timorosa di non reggere quel passo,
mi è successa una vicenda a dir poco stravagante:
stavo sola nel terrazzo, e con l’aria un po’ sognante,
ripassavo qualche farmaco in un modo inusitato…
l’argomento lo dicevo, a parole, ma cantato.
Poco dopo la vicina suonò forte al campanello:
“Silvia cara sei un portento, col tuo dolce ritornello,
hai guarito la mia gola da un bruciore persistente…

il dottore, poveretto, non riusciva a farci niente!
Ed invece la tua voce, così dolce e vellutata,
che parlava della cura più efficace ed appropriata,
carezzando le mie orecchie con la giusta melodia
ha attaccato il mal di gola e se l’è portato via.”
Sembrerà un evento strano, quasi un po’ miracoloso,
ma da quel momento in poi ho un sistema portentoso
per rispondere ai problemi di chi viene in farmacia:
non mi limito a fornirgli un intruglio pur che sia…
lo corredo di un sorriso e una piccola canzone.
Questo è un modo sorprendente di servire dal bancone,
non ha niente a che vedere col mestiere immaginato
ed è meglio, perché il canto mi ha da sempre affascinato!
Il successo è stato tale da attirare l’attenzione
di scienziati, capoccioni, farmacisti d’eccezione
e son stata incaricata di guidare un comitato
per scoprire quali effetti abbia il canto su un malato.
Chi l’avrebbe immaginato questo insolito portento?
E pensare quante volte ho temuto un fallimento,
quante volte avrei gettato il mio libretto nel cestino…
solamente perché ancora non sapevo il mio destino.
Qualche volta interrogarsi con chissà quale insistenza
è da sciocchi… molto meglio la fiducia e la pazienza.
Non mi pare che alla fine torturarsi di domande
sia d’aiuto per scoprire come diventare grande.”
Continua... 

martedì 4 marzo 2014

Le donne che saremo #2

...continua:



Quanto è vero! - dice Ambra, vagabonda di mestiere -
quando viaggio mi diverto… ma tornare è un gran piacere!”
Sono anni che lavora da piccione viaggiatore:
non c’è angolo del mondo, dai due poli all’Equatore,
che non abbia visitato, anche solo di passaggio,
trasportando qualche pacco, qualche lettera o messaggio.
Ha deciso di sfruttare i suoi studi da linguista
per unire le persone che si son perse di vista:
esplorando in lungo e in largo le nazioni e i continenti
porta lettere d’amore, e fa tutti più contenti.
In principio il suo lavoro era stato un po’ diverso…
a lei interessava solo scandagliare l’universo,
non voleva né una meta, né un motivo per vagare:
il suo amato imperativo era sempre e solo “andare!”
Poi però, ad un certo punto, ha avvertito la stanchezza,
ha capito che girare può portare all’ubriachezza,
e dei luoghi della Terra non puoi far la collezione
se poi quando ci ripensi non ti danno un’emozione:
non son punti della spesa da cercare avidamente,
ma tasselli di un bel puzzle da trattare dolcemente.
Ha trovato un bell’esempio nella mina del compasso:
rotte ampie, evoluzioni… per lei correre è uno spasso,
senza posa compie viaggi circolari sulle carte,
scorre, scivola, si ferma, prende forza poi riparte…
ma la mina viaggiatrice ci dà un’ottima lezione:
ha una punta ben piantata e una chiara direzione,
e se a volte si allontana dal suo punto di partenza
sa che perderlo sarebbe un’emerita imprudenza
e che il viaggio non vuol dire solo uscire ed esplorare,
ma comprende anche una fase che si chiama ritornare. 
Ora è Aura, dolcemente, che solleva un argomento.
Con il volto sognante e una mano sotto il mento
fa un sospiro, fa un sorriso, le si illumina lo sguardo:
“C’è una cosa che ho capito, non importa se in ritardo…
care amiche, voi sapete che da sempre ho un desiderio:
diventare dottoressa, che è un mestiere bello e serio,
ma nel cuore, in fondo in fondo, se ne stava l’incertezza…
e se tutto quel dolore mi riempisse di tristezza?
E se dopo qualche tempo tra corsie e sale d’aspetto
mi stancassi, o mi venisse una specie di rigetto?
La paura più tremenda che covavo nei pensieri
era che le mie passioni soccombessero ai doveri;
che la musica, i colori, la poesia, i tramonti e il mare
diventassero sciocchezze da dover dimenticare.
Per fortuna, un bel mattino, un’idea si è fatta largo
e mi ha tolto ogni paura, mi ha svegliata dal letargo:
ma perché passare il tempo a temer la scontentezza
e non prendere a due mani il coraggio e la fermezza?
Perché non trovare un modo originale di mischiare
la bellezza della scienza, il mio amore per il mare,
la passione per le cure sempre nuove e le invenzioni
e l’affetto per la gente che mi chiede soluzioni?
Da quel giorno era deciso: ho comprato una barchetta
con la vela e anche il motore – se ci fosse un po’ di fretta –
e ho pensato di piazzar l’ambulatorio nella stiva:
già vedevo i miei pazienti aspettarmi sulla riva,
ed io pronta, in ogni porto, a prestare le mie cure,
dar consigli, medicine, far controlli e fasciature…
poi alla fine del mio turno, quando il sole si fa arancio,
indossare la mia muta e tuffarmi con un lancio
tra le onde verdi e azzurre di una baia affascinante,
che mi incanti e che mi culli col suo abbraccio rinfrescante.
Qualche volta i miei pazienti mi reclamano per cena;
qualche volta sono io, quando c’è la luna piena,
che li invito a banchettare sul mio piccolo vascello
e tra chiacchiere e canzoni non c’è niente di più bello
della dolce sensazione che sia nato un bel rapporto,
anche se il mattino dopo migrerò in un altro porto.
Tanto mese dopo mese, se ho fiducia e son paziente,
trovo lì dov’era prima quella stessa bella gente,
spesso faccio un salto a casa da chi amo più di tutti
e poi mi rimetto in viaggio, cavalcando in mezzo ai flutti.
Quanto sono stata sciocca! Ho creduto che il dovere
mi portasse a rinunciare alle mie passioni vere
,
ma non mi ero ricordata di una facoltà che abbiamo…
ed è il dono assai prezioso di decidere chi siamo.”
Continua... 

lunedì 3 marzo 2014

L'8 marzo si avvicina: le donne che saremo #1

La festa della donna si avvicina e voglio festeggiarla anche io. Di donne ne conosco proprio tante, e mi hanno sempre ispirato un sacco di storie: quando ascolto le mie amiche - che insieme a me e come me, ognuna a modo suo, diventano grandi a poco a poco - mi capita spesso di pensare "che spettacolo". Sono sincera, non sempre è un bello spettacolo: domande difficili, dubbi, nervosismi, cambi di direzione improvvisi, grandi sfide, lacrime e angosce non mancano, ma pur sempre di spettacolo si tratta. Perché poi, inaspettatamente, qualcosa di buono lo tirano fuori, e io mi sento fiera di farne parte.

Tempo fa ho scritto una filastrocca per loro, le mie amiche... Non tutte, ma una bella squadra. Più che altro è una storia in rima, e siccome è un po' lunga ho deciso di raccontarla un po' alla volta, giorno per giorno, aspettando la festa della donna.

Le donne che saremo #1


“C’era una volta”
…è la frase preferita di poeti e parolieri,
di scrittori, cantastorie, menestrelli d’oggi e ieri.
Eppure, questa storia, ha ingredienti un po’ speciali:
non racconta solo fatti e avventure surreali,
si diverte a mescolare la realtà e la fantasia
e è difficile capire dove inizia la magia.
Il periodo in cui si svolge forse vi farà stupire:
non è storia del passato… ma riguarda l’avvenire!
Presto dunque, cominciamo, la lettura sarà fitta:
c’immergiamo in una storia che dev’esser ancor scritta
E'una sera d’estate dell’anno duemilacento.
Sul giardino scende dolce la carezza del vento,
e nel prato, sotto i pioppi spettinati nel tramonto,
il pic nic per le fanciulle sembra essere ormai pronto. 
Sono otto le invitate che si recano al banchetto
preparato nel bel parco dell’amica, l’architetto:
Giulia, col sorriso, se le stringe tra le braccia,
mentre accetta come doni del buon vino e panfocaccia.
“Come stai? Come sei bella! Cosa dici del lavoro?”
già le chiacchiere dilagano e si mischiano in un coro.
Ogni tanto hanno piacere di vedersi tutte quante:
non è facile incontrarsi, ma per loro l’importante
è trovare dei momenti, anche piccoli, anche rari,
per dividere i ricordi, che sian dolci oppure amari,
aggiornarsi sul presente e le novità di ognuna…
meglio ancora se cenando, al bagliore della luna.
Prendon posto, effervescenti, su un lenzuolo gigantesco
tra le piante di lavanda, le giunchiglie e il muschio fresco.
Si conoscono da tempo, non ricordano da quanto,
ma da sempre, per cenare, hanno un rito sacrosanto:
ogni brava commensale, prima di poter mangiare,
deve esprimere un augurio, a cui si dovrà brindare. 
Giulia , l’architetto, mentre serve le frittelle,
dice che ha una novità, e non sta più nella pelle:
finalmente, dopo anni di fatica e dedizione,
ha ottenuto dal suo capo una bella promozione!
Già da tempo lavorava a un progetto di gran classe:
una casa che seguisse il padrone ovunque andasse.
All’inizio le era parsa un’idea così geniale…
ogni luogo, con quel trucco, rimaneva sempre uguale,
niente alberghi né valigie, niente stress da adattamento,
stesso letto, stesse stanze… nessun vero cambiamento.
Però dopo qualche prova, si era accorta di una cosa:
che la vita, sempre uguale, è tranquilla ma noiosa!
Ed ecco, a questo punto, l’intuizione illuminante:
non doveva inventare una casa viaggiante,
ma una casa gentile, che sapesse voler bene,
che facesse sentire le persone più serene;
una casa che se parti sei sicuro che ti aspetta
ma che non ti fa rimpiangere il suo essere perfetta,
che protegge quando serve, ma può dare anche coraggio,
e sa rendere il riposo bello tanto quanto il viaggio. 
Continua...