Nel giorno della festa della donna il regalo più bello, per me, possono farselo proprio le donne: essere donne. Guardarsi allo specchio e amare il loro essere donna. Dire a gran voce che sono donne, dirlo a tutti e dirlo sempre. Ma non tanto nelle piazze... piuttosto nella vita. Dire che vogliono essere questo, niente di meno e niente di più, perché questo è già infinito. Dirlo ed esserlo, con tutto il loro corpo e quell'anima così forte e fragile. Luminosa, agitata e immensa come il mare.
Voglio raccontarvi Luisa, una delle donne più belle della mia vita.
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Luisa trucca le bimbe per la recita di quinta elementare |
La mia prima Maestra è stata Luisa. Non la prima persona ad avermi insegnato qualcosa, questo no. Se la questione fosse quella dovrei parlare della mia mamma e del mio babbo, della nonna, persino di mia sorella più piccola. Ma la prima Maestra con la M maiuscola - quella figura verso cui nutri rispetto e un po’ di soggezione, quella che prende l’uragano che ha nel cuore e ti ci tira dentro sperando di lasciarti qualcosa di buono – quella è stata Luisa. Lulù.
L’abito non farà il monaco, ma penso che Luisa non sarebbe stata Luisa senza quell’apparenza un po’ eccentrica, senza quel suo farsi notare. Me la ricordo colorata. I capelli rosso rame e le labbra rosso rubino, i gioielli d’oro, gli abiti scelti con cura. La scia di profumo: colorata anche quella, piena di estate e di autunno, di primavera e di inverno. Coloratissime le sue parole: ricche come frutti succosi, opulente come lampadari di cristallo. Cascate di aggettivi un po’ desueti e grappoli di espressioni barocche, così, che cadevano generose da quel sorriso infuocato.
Ricordo che diceva di essere vanitosa. Mi sembrava se ne facesse vanto. Io non sapevo ancora bene cosa volesse dire quella parola, “vanitosa”, ma mi venne l’idea che avesse a che fare con qualcosa di molto luminoso e piacevole. Un giardino fiorito, che so. C’entrava sicuramente con il coraggio e con la voglia di ridere forte, di dire quello che si aveva in testa. Una volta un bimbo, uno di noi della A, mi pare le disse che aveva i denti un po’ gialli. Così, senza malizia, con la sincerità disarmante e bastarda che hanno i bimbi prima di essere censurati dal mondo. Lei rispose che era il colore naturale dello smalto, e che nella sua vita non aveva mai avuto problemi di dentatura, e che i dentisti non li aveva mai visti neanche da lontano. Quella volta ci insegnò un’espressione bellissima, che usai in decine o forse centinaia di temi: “avere un sorriso di perla”. Che la perla in effetti non è proprio bianca: quella artificiale sì, ma le più pregiate non tanto. Se la cavò, insomma, con estrema eleganza, e pensai fosse dovuto al suo essere vanitosa. Era bello essere vanitose, perché significava volersi molto bene. Almeno esserlo in quella maniera, con quello stile lì. Pensai che un giorno avrei voluto esserlo anch’io.
Mangiava molte mele e molti crackers integrali. Per me voleva dire che ci teneva. A che cosa non lo sapevo di preciso, ma si vedeva che ci teneva. Non so, percepivo quello spuntino come un rituale importante, una coccola che Luisa si concedeva nel bel mezzo della lezione. Me la ricordo come se fosse qui ora: appoggiata al termosifone o alla finestra, lo sguardo attento ai suoi bimbi, e intanto sgranocchiava quei crackers da grandi. Perché ai bimbi l’integrale non piace. Ma un giorno, pensavo, sarebbe piaciuto anche a me.
Due episodi ce li ho impressi nella mente, e niente e nessuno me li porterà mai via. Ci fu quella volta che Lulù seppe di aver vinto un premio letterario importante. Eravamo in classe: era un giorno come tanti, ma le arrivò una misteriosa comunicazione. E lì ci fu lo scoppio di gioia più bello e contagioso che io abbia mai visto, perché lei non si limitò certo a sorridere o a borbottare qualche frase compiaciuta, ma levò uno strillo così acuto e così lungo che posso sentirlo ancora adesso, e lo definirei “cristallino”, che è un'altra parola un po’ magica che mi ha insegnato proprio lei. Quella mattina, con quel grido da sirena che avrebbe potuto mandare in pezzi le finestre, un’ondata di euforia si impossessò di tutti noi. Me lo ricordo bene quanto mi sentivo felice, e nemmeno sapevo bene per cosa, ma la maestra aveva urlato, aveva urlato in classe… che si sa, di solito, non si può urlare mica! Che gesto di trasgressione perfetto, che irriverenza, che affronto alla banalità delle cose di sempre! Fu come se ci avessero detto di saltare sui banchi, lanciare i quaderni al cielo, correre a rotta di collo giù per le scale e andare in giardino e poi via, marinare la scuola, così, per far festa. Proprio così: quell’urlo di felicità era una festa. Perché un grande, io, non lo avevo mai visto perdere il controllo così. Che meraviglia. Essere capaci di strillare di gioia. Non è mica una cosa da niente.
L’altra faccenda che mi ricordo è quella dei mutandoni di pizzo. Perché Lulù era fissata con le storie della guerra, e ci raccontava tante cose dell’epoca dei nostri nonni. Ci diceva che la storia non è roba lontana da leggere sui libri, ma una cosa vera e bella che c’entra anche con l’adesso. Ad esempio ci portava a scuola un vecchio ferro da stiro, di ferro veramente, con lo sportellino delle braci per scaldarlo, oppure la polenta da tagliare con il filo, come facevano una volta. Quella polenta, se mi concentro, è ancora qui che fa profumo, nitida nella mia testa come fosse davanti ai miei occhi: gialla, tonda, liscia, soda e calda come una creatura vivente. Un piccolo miracolo di farina e di acqua avvolto in un panno tiepido sulla cattedra, da tagliare a fette con il filo. Ma poi, soprattutto, ci portò a scuola i mutandoni per spiegarci che una volta, le signore, gli slippini stretti di cotone se li sognavano: sotto le gonne portavano dei mutandoni bianchi coi bordi di pizzo che avevo visto addosso solo alle bambole di porcellana, quelle che stanno sulle mensole a prendere la polvere. Avrebbe potuto portarli a scuola e raccontarcelo così, in quattro parole, e magari farceli passare di mano in mano per un tocco di realismo in più (che forse già sarebbe parso strano ai più bigotti, far lezione di storia partendo dalla biancheria intima). Ma Luisa invece no: lei se li era messi addosso e salì in piedi sulla cattedra, con la gonna sollevata, che potessimo vederli bene! Anche Robin Williams ne “L’attimo fuggente” sale in piedi sulla cattedra e invita i giovani a cambiare punto di vista di tanto in tanto. Io quel film non lo conoscevo, ero ancora troppo piccola, e chissà se Luisa ci aveva pensato o aveva tratto in qualche modo ispirazione. Fatto sta che qualche anno dopo il film lo vidi, e il professor John Keating, per quanto amabile e pieno di passione, non l’ho mai trovato più eccezionale di Luisa.
Ricordo le pagelle dove scriveva piccoli temi su di noi. Conosceva i nostri passatempi e le nostre inclinazioni, e le metteva in evidenza più dei voti. Se il luogo comune vuole che il maestro dica sempre e solo due frasi sui suoi alunni – “è intelligente ma non si applica” oppure “si vede l’impegno ma mancano i risultati” – Lulù invece raccontava le nostre imprese all’uncinetto o la nostra maestria con la chitarra, il talento nella pittura o la passione per il canto. Diceva che la persona è tutto questo, e molto di più. Che scrivere un voto non bastava, e che tutto quello c’entrava anche con la scuola. Più del catechismo, più della beneficenza che avrei conosciuto qualche anno più tardi, credo che quelle pagelle mi abbiano insegnato a dare il giusto peso alle cose e alle persone. Era almeno una prima intuizione.
Ricordo le ore di religione passate coi vecchietti, a fargli il ritratto. Il mio vecchietto aveva delle orecchie lunghe e molli, come avesse portato gli orecchini tutto il tempo, solo che era un uomo. E sinceramente non ricordo se gli facesse piacere mettersi in posa per una piccola decenne con la coda di cavallo, ma mi viene da dire che la maggior parte dei vecchietti non ce l’ha una bambina che gli faccia un ritratto, e se non altro lui, nella sua vita, avrà avuto anche questo: la sorpresa di conoscere una maestra un po’ matta, che di raccontare la vita di Gesù non ne aveva proprio voglia e preferiva trascinare i suoi bambini in un atelier improvvisato. Che per me non era triste. Era un pezzo di vita, e come tale era bello. Certe volte, ai bambini, basterebbe insegnargli questo.
Non è mai facile raccontare cosa ti lascia una persona. Cosa ti dona, cosa ti toglie, in cosa ti cambia. Non ne siamo neppure consapevoli del tutto. Ma so che le ragazze hanno “la pelle di pesca” per merito di Luisa, e sempre per colpa di Luisa certa gente “ha le mani grandi come pale da fornaio”, l’acqua ha un suono “argentino” e l’autunno è un pittore. Quando arriva la primavera gli alberi si vestono a festa, e quando arriva l’inverno da qualche parte c’è una foglia, di nome Bandiera, che lotta contro il destino perché ama troppo la vita. Non potrò mai usare un vezzeggiativo senza temere la penna rossa di Luisa, che lo segnerebbe errore perché non c’è bisogno di ridurre tutto in –ino e in –ina, e il complemento oggetto sarà sempre e irrimediabilmente incarnato da quella frase, quella indelebile frase, di Luisa che mangia la mela. Ed è colpa sua se un antico roseto può raccontare una storia, se il suono della moka assomiglia a una musica e se ogni cosa ha un profumo, un sapore, una luce. Ancora adesso esco di casa al mattino e ho la voce di un narratore nella testa: registra ogni piega e ogni ruga del mondo, e scopre un potenziale incipit di romanzo ad ogni angolo di strada e in ogni sguardo rubato. È il mondo parlante che mi ha indicato Luisa. È il mondo in cui la scuola ha un cuscilibro, dove maestre e bambini leggono insieme l’avventura più bella.
Buona Festa della Donna a tutte!