Ho notato che accade una cosa strana. Provassimo a
fare un’intervista così, passeggiando per strada, fermando gente a caso nella
mattina di mercato, magari interrompendo le chiacchiere tra un gruppetto di
amici; provassimo a fare un’intervista, dicevo, e chiedessimo un parere sui
cellulari e i social network, insomma, sulle famigerate nuove tecnologie, mi
sento di scommettere che la maggior parte degli interpellati ne direbbe peste e
corna. Giovani, vecchi, finti-giovani o anziani precoci: tutti, ma proprio
tutti, sciorinerebbero da copione le atroci conseguenze che gli smartphone
hanno portato nelle nostre vite, riducendole non più a vere vite, ma a banali
“esistenze”, secondo una contrapposizione che va tanto di moda. E la gente che
cammina sui marciapiede a testa bassa. E non ci si dice neanche più buongiorno facendo
la fila alle poste. E questi cellulari sempre appoggiati sul tavolo mentre si
mangia, e prima di andare a letto non si legge più un buon libro ma si
controlla whatsapp. Non si guardano più i tramonti, non si annusa più il profumo
della primavera, la domenica non si fa più la gita in campagna e non si
conoscono più le costellazioni. Non c’è bisogno di essere vecchi bacucchi: persino
gli adolescenti lo dicono chiaro e tondo, o almeno lo scrivono nei temi. “Il
cellulare mi ruba troppo tempo e energie. Controllo ossessivamente i ‘mi piace’
e i commenti su fb. A volte penso che fosse meglio una volta, quando l’essere
contava più dell’apparire e la vita vera era più importante di quella virtuale.”
Favoleggiano di qualcosa che non hanno mai conosciuto, perché di fatto, i
giovincelli in questione, sono nati che l’I-phone già stregava le folle, e
forse non sanno di essere stati buoni buoni appisolati nella carrozzina, mentre
la loro mamma faceva la fila all’Apple Store. Da qualche parte le avranno
sentite, queste storie sul mondo “di prima”, quando si viveva davvero e le
persone avevano rapporti autentici, fatti di carne e di pelle e di ossa. Ad
ogni modo, manco glielo avessero tatuato addosso, il cellulare ce l’hanno
comunque sempre in mano, alla faccia di tutti i discorsi sull’Arcadia
pre-tecnologica e sulle amenità della vita dis-connessa. E per gli adulti è lo
stesso. Ogni tanto, scorrendo la bacheca di facebook – che forse ora si chiama ‘diario’?
– incappiamo in un articolo che fa al caso nostro: il tale artista, quotatissimo
a New York, ha giusto giusto realizzato un video strappalacrime sull’inaridirsi
delle relazioni familiari, totalmente guastate dalla dipendenza da cellulare.
Clicchiamo il link, ci ciucciamo tutto il video, e finisce che ci sentiamo
terribilmente in colpa per quella volta che anziché chiacchierare con la nonna sulla
Seconda Guerra Mondiale abbiamo mandato una mail di troppo, o per quell’altra
che anziché fare una dichiarazione d’amore davanti a un cielo mozzafiato ci
siamo messi in posa e ci siamo fatti un selfie, o per quella mattina in cui
abbiamo consultato il meteo con l’apposita app anziché spalancare le finestre
sul mondo e ascoltare gli uccellini ammirando l’alba. Ci sentiamo anche un po’
incazzati, perché noi non ci stiamo, non va bene che la tecnologia ci
inebetisca così. Peccato che il nostro bel video-denuncia ce lo siamo guardato
tutto comodamente appostati sulla tazza del water, oppure in autobus pigiati in
un recinto di ascelle, o magari nel parcheggio dell’azienda per ammazzare gli
ultimi minuti liberi prima di lavorare, ovviamente sullo schermo formato
cartolina del nostro bell’aggeggino tuttofare. E peccato che il regista del
video, così critico e lucido di fronte alla nostra corsa al futuro, il suo
video l’abbia pubblicato in rete e non l’abbia certo diffuso coi piccioni
viaggiatori. Quindi nulla, siccome ci è piaciuto tanto, non ci resta che
condividerlo, perché tutti quelli che amiamo, coi loro dolci cellulari, possano
vedere che merde stiamo diventando proprio grazie ai cellulari.
Non è la prima volta che succede. È un po’ di tempo
che i pacchetti di sigarette ospitano scritte allarmanti sugli effetti del
fumo, ma il cliente sorride facendo un salto dal tabacchino, e il tabaccaio sorride
quando gli porge le Marlboro. Nel caso non sorridesse, sarebbe certamente
perché è un tipo un po’ timido, o perché quel giorno non gliene va dritta una.
Nel peggiore dei casi non sorriderà perché è un tabaccaio maleducato, questo
qui che ci passa le sigarette, ma non certo perché il suo prodotto provoca il
cancro “a te e a chi ti sta intorno”. Insomma, perdonate il paragone azzardato,
ma dire che il cellulare ammazza le relazioni umane non è un po’ come dire che
le sigarette provocano il cancro? Che a ben pensarci, sapete, non è proprio
proprio così, perché non avendo le sigarette una benché minima capacità di
intendere né di volere, va da sé che di colpa, loro, non ne hanno proprio
nessuna, e non “provocano” proprio un bel niente.
Insomma, mi chiedo se lo smartphone sia così
responsabile. Io, da adolescente, lo smartphone non lo avevo. Mi sembra di aver
vissuto un’infanzia e un’adolescenza sane, normali, ma ero pur sempre un’adolescente:
un po’ sbruffoncella, lunatica, con la tendenza a ritirarmi in camera appena
potevo, bramosa di solitudine e silenzio o di musica di dubbio gusto, quasi
sempre impeccabile nel rispondere “niente” all’immortale domanda “cos’hai fatto
oggi a scuola?”. Non faceva tanta differenza, che io non avessi lo smartphone.
Di “sciocchezze” con cui annientarmi il cervello ne avevo comunque a bizzeffe.
La televisione e le avventure di Dawson e Joey. Le interminabili telefonate con
le mie amiche, rigorosamente da telefono fisso a telefono fisso, usate a parlare
per ore – ma ORE veramente – di quel tipo di terza media che finalmente mi aveva
guardata con la coda dell’occhio. I cd dei Backstreet Boys, da imparare tutti a
memoria. Il mio record personale di Snake da battere sul Nokia 3210. La lettura
di Cioè. E va bene, non sbrodolavo sui social qualunque cosa facessi. Non mi
scattavo foto da sola per poi ritoccarle e trasformarmi in un incrocio
inquietante tra una prostituta-bambina e una diva da passerelle. Però la
differenza non l’ha fatta lo smartphone. La differenza l’ha fatta il dettaglio
più semplice: che avevo mia sorella per giocare, mia mamma che preparava la
merenda, e mio babbo che mi raccontava le storie di paura. E lo facciamo ancora
adesso, nonostante in casa ne girino, di smartphone e di I-pad.
Io penso questo. Penso che a volte incolpare un
oggetto sia tanto più comodo e rassicurante che rendersi conto di cosa stiamo
creando. E se spegnessimo tutti gli smartphone, adesso, mettendoci tutti d’accordo,
facendo finta che la tecnologia non esista, siamo proprio sicuri che
ricominceremmo a ammirare i tramonti, a annusare i fiori, a chiederci “come
stai?” e a guardarci negli occhi? Ci interesserebbero il sole, gli uccelli, la
musica, il vento, le nostre paure, la ricerca di un senso, il pane fatto in
casa, l’orto sul balcone, le lunghe chiacchierate davanti a un tè caldo, la
pioggia sulla pelle, le corse sulla spiaggia, la luce dell’alba, le lucciole,
le foglie in autunno, la voce del mare, la voce dei vecchi, la voce dei cuori?
Ci interesserebbero tutte queste cose? Sì? E allora non c’è niente che ostacoli
il nostro prenderle adesso.
Mi sembra un po’ una presa per i fondelli, ecco,
tutto questo alzare la voce contro i social e il resto. Come spesso succede, da
sempre, mi sembra l’ennesimo tranello per farci fare “spallucce”, rassegnati
all’idea che il mondo cambia alla velocità della luce, e la società cambia, e
che ci vuoi fare, ormai siamo fatti così. Però di vecchi maleducati e meschini,
lo giuro, io ne ho conosciuti, di quelli che non salutano mai, e che nella vita
hanno vissuto ben poco. Non li ha rovinati la Apple, non l’hanno neanche mai
conosciuta. E insomma tutto questo per dire, così, proprio tanto umilmente e
con garbo, che se proprio ci sentiamo schiavi di qualcosa, quel qualcosa non è
certo un palmare. Ripensassimo ai nostri desideri, quelli veri, nascosti per
bene. A quel punto non avremmo più limiti: tutto sarebbe per noi, tutto quanto a
nostro favore. Anche smartphone e compagnia bella.