Chi si chiede cosa si fa qui si rassereni: esattamente non lo sa nessuno.
Io ci metto qualche parola e qualche foto.
Con un'unica regola: solo finché mi fa felice.

sabato 31 ottobre 2015

Per certi fiumi non esiste diga


Mi piace a volte fare degli elenchi,
mi sembrano così rassicuranti,
mi aiutano a raccogliere le cose.
Riordinano i giorni più sbilenchi,
è come se facessero da guanti
per non beccare spine tra le rose.
L’elenco degli impegni in calendario,
l’elenco dei progetti che ho in cantiere,
l’elenco dei miei pregi e dei difetti…
Mi piace fare come l’inventario:
le cose poi mi sembrano più vere
se sono definiti dei paletti,
se tutto resta sotto il mio controllo,
se posso misurare dei progressi.
Fortuna che però c’è il terremoto.
Stupiti e spaventati dopo il crollo
capiamo che eravamo proprio fessi
a illuderci che tutto fosse noto,
a mettere la vita su una riga
come una lista fredda di obiettivi,
perché non si misura la realtà.
Per certi fiumi non esiste diga.
Ne ha tre di dimensioni ciò che vivi
e molto se ne sta in profondità.

venerdì 16 ottobre 2015

L'autunno



L’autunno ha un suo ché di glorioso
come un vecchio che senza rimpianti
si prepara a un addio luminoso
e non teme che cosa ha davanti,
perché sa che la vita è un intero
fatto anche di limiti e quiete.
Non ha dubbi, ha vissuto davvero,
ha ascoltato ogni giorno la sete
che da dentro premeva e diceva
che siam fatti per cose migliori
di successo, denaro, carriera.
E l’autunno ha infiniti sapori
ma li deve alla sua primavera.
Preferisco che il freddo e la morte
non ci siano nemici giurati:
che sia dolce accettare la sorte,
che sia bello saperci arrivati
a quel mare per cui scorrevamo.
E l’autunno ci ha sempre salvati
suggerendo il prodigio che siamo.

martedì 13 ottobre 2015

Tutto sarebbe per noi

Ho notato che accade una cosa strana. Provassimo a fare un’intervista così, passeggiando per strada, fermando gente a caso nella mattina di mercato, magari interrompendo le chiacchiere tra un gruppetto di amici; provassimo a fare un’intervista, dicevo, e chiedessimo un parere sui cellulari e i social network, insomma, sulle famigerate nuove tecnologie, mi sento di scommettere che la maggior parte degli interpellati ne direbbe peste e corna. Giovani, vecchi, finti-giovani o anziani precoci: tutti, ma proprio tutti, sciorinerebbero da copione le atroci conseguenze che gli smartphone hanno portato nelle nostre vite, riducendole non più a vere vite, ma a banali “esistenze”, secondo una contrapposizione che va tanto di moda. E la gente che cammina sui marciapiede a testa bassa. E non ci si dice neanche più buongiorno facendo la fila alle poste. E questi cellulari sempre appoggiati sul tavolo mentre si mangia, e prima di andare a letto non si legge più un buon libro ma si controlla whatsapp. Non si guardano più i tramonti, non si annusa più il profumo della primavera, la domenica non si fa più la gita in campagna e non si conoscono più le costellazioni. Non c’è bisogno di essere vecchi bacucchi: persino gli adolescenti lo dicono chiaro e tondo, o almeno lo scrivono nei temi. “Il cellulare mi ruba troppo tempo e energie. Controllo ossessivamente i ‘mi piace’ e i commenti su fb. A volte penso che fosse meglio una volta, quando l’essere contava più dell’apparire e la vita vera era più importante di quella virtuale.” Favoleggiano di qualcosa che non hanno mai conosciuto, perché di fatto, i giovincelli in questione, sono nati che l’I-phone già stregava le folle, e forse non sanno di essere stati buoni buoni appisolati nella carrozzina, mentre la loro mamma faceva la fila all’Apple Store. Da qualche parte le avranno sentite, queste storie sul mondo “di prima”, quando si viveva davvero e le persone avevano rapporti autentici, fatti di carne e di pelle e di ossa. Ad ogni modo, manco glielo avessero tatuato addosso, il cellulare ce l’hanno comunque sempre in mano, alla faccia di tutti i discorsi sull’Arcadia pre-tecnologica e sulle amenità della vita dis-connessa. E per gli adulti è lo stesso. Ogni tanto, scorrendo la bacheca di facebook – che forse ora si chiama ‘diario’? – incappiamo in un articolo che fa al caso nostro: il tale artista, quotatissimo a New York, ha giusto giusto realizzato un video strappalacrime sull’inaridirsi delle relazioni familiari, totalmente guastate dalla dipendenza da cellulare. Clicchiamo il link, ci ciucciamo tutto il video, e finisce che ci sentiamo terribilmente in colpa per quella volta che anziché chiacchierare con la nonna sulla Seconda Guerra Mondiale abbiamo mandato una mail di troppo, o per quell’altra che anziché fare una dichiarazione d’amore davanti a un cielo mozzafiato ci siamo messi in posa e ci siamo fatti un selfie, o per quella mattina in cui abbiamo consultato il meteo con l’apposita app anziché spalancare le finestre sul mondo e ascoltare gli uccellini ammirando l’alba. Ci sentiamo anche un po’ incazzati, perché noi non ci stiamo, non va bene che la tecnologia ci inebetisca così. Peccato che il nostro bel video-denuncia ce lo siamo guardato tutto comodamente appostati sulla tazza del water, oppure in autobus pigiati in un recinto di ascelle, o magari nel parcheggio dell’azienda per ammazzare gli ultimi minuti liberi prima di lavorare, ovviamente sullo schermo formato cartolina del nostro bell’aggeggino tuttofare. E peccato che il regista del video, così critico e lucido di fronte alla nostra corsa al futuro, il suo video l’abbia pubblicato in rete e non l’abbia certo diffuso coi piccioni viaggiatori. Quindi nulla, siccome ci è piaciuto tanto, non ci resta che condividerlo, perché tutti quelli che amiamo, coi loro dolci cellulari, possano vedere che merde stiamo diventando proprio grazie ai cellulari.
Non è la prima volta che succede. È un po’ di tempo che i pacchetti di sigarette ospitano scritte allarmanti sugli effetti del fumo, ma il cliente sorride facendo un salto dal tabacchino, e il tabaccaio sorride quando gli porge le Marlboro. Nel caso non sorridesse, sarebbe certamente perché è un tipo un po’ timido, o perché quel giorno non gliene va dritta una. Nel peggiore dei casi non sorriderà perché è un tabaccaio maleducato, questo qui che ci passa le sigarette, ma non certo perché il suo prodotto provoca il cancro “a te e a chi ti sta intorno”. Insomma, perdonate il paragone azzardato, ma dire che il cellulare ammazza le relazioni umane non è un po’ come dire che le sigarette provocano il cancro? Che a ben pensarci, sapete, non è proprio proprio così, perché non avendo le sigarette una benché minima capacità di intendere né di volere, va da sé che di colpa, loro, non ne hanno proprio nessuna, e non “provocano” proprio un bel niente.
Insomma, mi chiedo se lo smartphone sia così responsabile. Io, da adolescente, lo smartphone non lo avevo. Mi sembra di aver vissuto un’infanzia e un’adolescenza sane, normali, ma ero pur sempre un’adolescente: un po’ sbruffoncella, lunatica, con la tendenza a ritirarmi in camera appena potevo, bramosa di solitudine e silenzio o di musica di dubbio gusto, quasi sempre impeccabile nel rispondere “niente” all’immortale domanda “cos’hai fatto oggi a scuola?”. Non faceva tanta differenza, che io non avessi lo smartphone. Di “sciocchezze” con cui annientarmi il cervello ne avevo comunque a bizzeffe. La televisione e le avventure di Dawson e Joey. Le interminabili telefonate con le mie amiche, rigorosamente da telefono fisso a telefono fisso, usate a parlare per ore – ma ORE veramente – di quel tipo di terza media che finalmente mi aveva guardata con la coda dell’occhio. I cd dei Backstreet Boys, da imparare tutti a memoria. Il mio record personale di Snake da battere sul Nokia 3210. La lettura di Cioè. E va bene, non sbrodolavo sui social qualunque cosa facessi. Non mi scattavo foto da sola per poi ritoccarle e trasformarmi in un incrocio inquietante tra una prostituta-bambina e una diva da passerelle. Però la differenza non l’ha fatta lo smartphone. La differenza l’ha fatta il dettaglio più semplice: che avevo mia sorella per giocare, mia mamma che preparava la merenda, e mio babbo che mi raccontava le storie di paura. E lo facciamo ancora adesso, nonostante in casa ne girino, di smartphone e di I-pad.
Io penso questo. Penso che a volte incolpare un oggetto sia tanto più comodo e rassicurante che rendersi conto di cosa stiamo creando. E se spegnessimo tutti gli smartphone, adesso, mettendoci tutti d’accordo, facendo finta che la tecnologia non esista, siamo proprio sicuri che ricominceremmo a ammirare i tramonti, a annusare i fiori, a chiederci “come stai?” e a guardarci negli occhi? Ci interesserebbero il sole, gli uccelli, la musica, il vento, le nostre paure, la ricerca di un senso, il pane fatto in casa, l’orto sul balcone, le lunghe chiacchierate davanti a un tè caldo, la pioggia sulla pelle, le corse sulla spiaggia, la luce dell’alba, le lucciole, le foglie in autunno, la voce del mare, la voce dei vecchi, la voce dei cuori? Ci interesserebbero tutte queste cose? Sì? E allora non c’è niente che ostacoli il nostro prenderle adesso.
Mi sembra un po’ una presa per i fondelli, ecco, tutto questo alzare la voce contro i social e il resto. Come spesso succede, da sempre, mi sembra l’ennesimo tranello per farci fare “spallucce”, rassegnati all’idea che il mondo cambia alla velocità della luce, e la società cambia, e che ci vuoi fare, ormai siamo fatti così. Però di vecchi maleducati e meschini, lo giuro, io ne ho conosciuti, di quelli che non salutano mai, e che nella vita hanno vissuto ben poco. Non li ha rovinati la Apple, non l’hanno neanche mai conosciuta. E insomma tutto questo per dire, così, proprio tanto umilmente e con garbo, che se proprio ci sentiamo schiavi di qualcosa, quel qualcosa non è certo un palmare. Ripensassimo ai nostri desideri, quelli veri, nascosti per bene. A quel punto non avremmo più limiti: tutto sarebbe per noi, tutto quanto a nostro favore. Anche smartphone e compagnia bella.