Chi si chiede cosa si fa qui si rassereni: esattamente non lo sa nessuno.
Io ci metto qualche parola e qualche foto.
Con un'unica regola: solo finché mi fa felice.

domenica 30 agosto 2015

Quando vai a scuola credi che per i prof sia diverso


Quando vai a scuola credi che per i prof sia diverso. Pensi che non si annoino mai in classe; che non vorrebbero mai essere altrove. Pensi che l’analisi del periodo sia davvero, per loro, una questione di vita o di morte, e non sospetti che si distraggano a lezione. Non sai che vorrebbero controllare il cellulare in borsa perché l’hanno sentito vibrare, o che non vedono l’ora di fare merenda. Immagini che non dicano parolacce, e che nel pomeriggio non si concedano mai di bivaccare in pigiama sul divano, magari sgranocchiando un pacco intero di biscotti. Spesso arrivi a pensare che i professori, nel pomeriggio, semplicemente non esistano. E invece per i prof è la stessa cosa: aspettano anche loro l’ultima ora del sabato con un’euforia crescente dentro il petto, e l’inizio delle vacanze estive è anche per loro un miracolo, che esplode con la campanella più attesa di inizio giugno. Quando ero piccola già lo sapevo: la mia idea di felicità assomigliava a quel fiume in piena che dalle classi straripava giù per le scale, e poi in cortile, l’ultimo giorno di scuola.
Il 30 giugno 2015 ho concluso il mio secondo esame di terza media. Il primo risaliva a quindici anni fa, quando avevo l’apparecchio ai denti: appena finito ero andata a festeggiare in piscina, con la mia classe e un fidanzatino che avrei lasciato via sms due giorni dopo, dal mio nuovo Nokia 3210. Oggi ho 29 anni e a giugno 2015, ormai un paio di mesi fa, l’esame ha avuto un sapore nuovo, perché questa volta la prof ero io.
A interrogazioni finite ho provato sollievo: tutto era andato bene. Qualche discussione, qualche intoppo burocratico facilmente raddrizzabile, qualche valutazione forse più scarsa di quanto avremmo voluto… Però tutto bene. Ero stata credibile, come prof? Nella tracolla nera – quella che avevo comprato al Leonardo con mia mamma lo scorso agosto, preparandomi all’avventura – avevo un plico di fogli pieni di appunti: le date di storia che non mi ricordo mai neppure io, perché mica posso chiedere una data e poi dimenticarmela per prima; qualche citazione di personaggio letterario da presentare ai ragazzi, per poi sfidarli: “Chi pensi l’abbia scritta?”; qualche annotazione per evitare disastri. “Non chiedere il Risorgimento a Montroni”. “Collegamento con arte per Bertuzzi”. “Leopardi piace molto a Ferretti”. Cose così.
Non sono andata a festeggiare in piscina, benché l’estate lo chiedesse a gran voce. In lontananza il profilo di Imola e il tremolio dell’afa, come succede nel deserto, perché laggiù tra l’asfalto dovevano esserci più di trenta gradi. La scuola è su una collina: là è sempre un po’ più fresco che in centro. Qualche alito d’aria mi accarezzava, ma sarebbe bastato il verde degli alberi e del prato a darmi sollievo: quel verde e quel sollievo che ho apprezzato tante volte, nei dieci mesi precedenti, andando al lavoro la mattina. Imboccando la salita vedevo la scuola sulla cima, ancora mezza addormentata nella luce tenera delle 7.30, con le galline del contadino a tagliarmi la strada e qualche volta, con un po’ di fortuna, uno scoiattolo rapido che guizzava su per un tronco, come un’allegra scintilla rossiccia. Qualche volta avevo l’autoradio accesa, quando avevo voglia di giocare alla colonna sonora, quando mi andava di cantare anche se mi ero svegliata da poco, quando immaginavo di essere dentro un film e mi vedevo tutta la scena da fuori, con questa giovane prof inesperta che andava verso la sua giornata dentro una Lancia azzurrina. Altre volte desideravo il silenzio, ad esempio quando ero un po’ inquieta per una mattinata pesante in arrivo, oppure se ero particolarmente felice. Così felice che non serviva nient’altro.
E la musica non è servita, a fine giugno, a esami orali finiti, mentre tornavo a casa coi finestrini abbassati, finalmente libera da ogni incombenza scolastica. Libera di mettermi i jeans strappati. Libera di fare tardi un venerdì sera. Libera di andare dall’estetista e preparare la borsa del mare. Non è servita la musica perché era già forte nell’aria, potentissima nelle mie orecchie, così gloriosa e eccitante come solo le giornate memorabili sanno suonare: nel sole dell’estate risentivo quei “prof”, quelle voci squillanti, e forse solo lì mi sono davvero resa conto che in classe, quelle venti facce un po’ adulte e un po’ bimbe, non le avrei  proprio viste mai più. Chissà se si piange ogni volta. Immagino di sì.
E chissà l’estate dei ragazzi. Saranno andati in giro in bicicletta o saranno scappati al mare coi genitori, magari la sera avranno avuto il permesso di prendere un gelato fra amici. Crederanno di essersi lasciati alle spalle un’impresa epica e immagineranno la scuola nuova pieni di aspettative e di sogni, con quel misto di attrazione e timore che sempre proviamo per ciò che deve arrivare.
Ogni volta succede anche a me: la strada dell’insegnante è fatta di tante storie, di tanti inizi, di tanti addii e arrivederci. Spesso il 30 giugno significa vacanza ma anche disoccupazione, il che comporta una distesa eccitante e inquietante di mesi  liberi che si srotolano di fronte ai miei piedi, come un tappeto costellato di interrogativi, diretto non si sa dove. Fortunatamente non sono il tipo che si fa prendere dall’ansia – non più – e a fine giugno il mio tappeto lo immaginavo azzurro come un cielo pulito, vagamente profumato di salsedine e inondato di un sacco di sole. Tutto sommato non mi dispiace quando le cose finiscono, se me le sono gustate per bene. Che non significa senza ferite.
Soprattutto perché niente avrebbe inizio, se nulla finisse. Io oggi non avrei questa bella agenda vuota tra le mani, e questo settembre carico di promesse a tenermi sveglia la notte per l’impazienza. Che chi l’ha detto, poi, che ciò che è stato sia meglio di quello che sarà? Pronta a farmi travolgere e stupire dai piccoli grandi uomini che anche quest’anno, ancora una volta, incontrerò sulla mia strada.

giovedì 27 agosto 2015

Un gesto

Comprare un’agenda
ci ha dentro
l’odore di nuovo e di bianco.
Più è vuota
più è bella
e più è piena
perché ci risponde
a quel dubbio,
quel tarlo che è proprio da noi.
“Puoi esserlo”
dice l’agenda.
“Puoi essere quello che vuoi”.

venerdì 7 agosto 2015

A un amico gli vorresti regalare


A un amico gli vorresti regalare
Tutto quello che desidera e gli manca.
Lo vorresti riverire, coccolare…
Purché sia felice lasci carta bianca.

Cancellare qualche ruga dal suo viso,
regalargli quelle ferie meritate,
realizzargli la sua idea di paradiso,
suggerirgli il senso delle sue giornate.

Dopo un po’, quando un amico compie gli anni,
non hai voglia di comprare chissà cosa:
i pacchetti sono solo degli inganni,
come foto artificiose, tutte in posa.

A un amico gli vorresti regalare
quel regalo che non hai nemmeno te:
quella pace inquieta tipica del mare,
e un momento che gli sveli lui chi è.

Ma non credo che si possa, a dire il vero,
forse ognuno deve fare il suo cammino,
senza sconti, solamente prezzo intero.
Però sempre con un’anima vicino.

mercoledì 5 agosto 2015

Stasera facciamo un giro


Credo si debba dire ti voglio bene una volta al giorno
però in modo sempre nuovo, se no si perde il valore.
Puoi dire ti voglio bene sfornando patate al forno,
puoi dirlo con un sussurro, oppure con gran clamore.
A volte lo dici solo semplicemente aspettando un poco,
a volte l’attesa è lunga, ma è il prezzo dei sentimenti.
A volte lo dici quando ti prende in giro ma tu stai al gioco,
oppure c’è chi lo dice senza ostentarlo, stringendo i denti.

Ti voglio davvero bene… puoi dirlo con una torta,
puoi dirlo quando ti fermi dopo lavoro a fare la spesa,
puoi dirlo tenendo a bada quei nervosismi da luna storta,
oppure puoi innervosirti, ma poi ricercar l’intesa.
Puoi dirlo con un biglietto, e metterlo sul cuscino,
puoi dirlo dicendo “Basta, stasera facciamo un giro”,
puoi dirlo mettendo a posto il suo libro sul comodino,
puoi dirlo anche se non sente, perché dorme come un ghiro.

Fortuna c’è chi capisce, comunque noi lo diciamo.
A me c’è stata una volta, che mi ha fatto star da Dio:
siccome era quasi notte, io dolce gli ho detto “andiamo”.
Però deve aver frainteso, perché mi ha risposto “anch’io”.