Quando vai a scuola credi che per i prof sia diverso. Pensi che non si
annoino mai in classe; che non vorrebbero mai essere altrove. Pensi che
l’analisi del periodo sia davvero, per loro, una questione di vita o di morte,
e non sospetti che si distraggano a lezione. Non sai che vorrebbero controllare
il cellulare in borsa perché l’hanno sentito vibrare, o che non vedono l’ora di
fare merenda. Immagini che non dicano parolacce, e che nel pomeriggio non si
concedano mai di bivaccare in pigiama sul divano, magari sgranocchiando un
pacco intero di biscotti. Spesso arrivi a pensare che i professori, nel
pomeriggio, semplicemente non esistano. E invece per i prof è la stessa cosa:
aspettano anche loro l’ultima ora del sabato con un’euforia crescente dentro il
petto, e l’inizio delle vacanze estive è anche per loro un miracolo, che
esplode con la campanella più attesa di inizio giugno. Quando ero piccola già
lo sapevo: la mia idea di felicità assomigliava a quel fiume in piena che dalle
classi straripava giù per le scale, e poi in cortile, l’ultimo giorno di
scuola.
Il 30 giugno 2015 ho concluso il mio secondo esame di terza media. Il
primo risaliva a quindici anni fa, quando avevo l’apparecchio ai denti: appena
finito ero andata a festeggiare in piscina, con la mia classe e un fidanzatino
che avrei lasciato via sms due giorni dopo, dal mio nuovo Nokia 3210. Oggi ho
29 anni e a giugno 2015, ormai un paio di mesi fa, l’esame ha avuto un sapore
nuovo, perché questa volta la prof ero io.
A interrogazioni finite ho provato sollievo: tutto era andato bene.
Qualche discussione, qualche intoppo burocratico facilmente raddrizzabile,
qualche valutazione forse più scarsa di quanto avremmo voluto… Però tutto bene.
Ero stata credibile, come prof? Nella tracolla nera – quella che avevo comprato
al Leonardo con mia mamma lo scorso agosto, preparandomi all’avventura – avevo un
plico di fogli pieni di appunti: le date di storia che non mi ricordo mai
neppure io, perché mica posso chiedere una data e poi dimenticarmela per prima;
qualche citazione di personaggio letterario da presentare ai ragazzi, per poi
sfidarli: “Chi pensi l’abbia scritta?”; qualche annotazione per evitare disastri.
“Non chiedere il Risorgimento a Montroni”. “Collegamento con arte per Bertuzzi”.
“Leopardi piace molto a Ferretti”. Cose così.
Non sono andata a festeggiare in piscina, benché l’estate lo chiedesse
a gran voce. In lontananza il profilo di Imola e il tremolio dell’afa, come
succede nel deserto, perché laggiù tra l’asfalto dovevano esserci più di trenta
gradi. La scuola è su una collina: là è sempre un po’ più fresco che in centro.
Qualche alito d’aria mi accarezzava, ma sarebbe bastato il verde degli alberi e
del prato a darmi sollievo: quel verde e quel sollievo che ho apprezzato tante
volte, nei dieci mesi precedenti, andando al lavoro la mattina. Imboccando la
salita vedevo la scuola sulla cima, ancora mezza addormentata nella luce tenera
delle 7.30, con le galline del contadino a tagliarmi la strada e qualche volta,
con un po’ di fortuna, uno scoiattolo rapido che guizzava su per un tronco,
come un’allegra scintilla rossiccia. Qualche volta avevo l’autoradio accesa,
quando avevo voglia di giocare alla colonna sonora, quando mi andava di cantare
anche se mi ero svegliata da poco, quando immaginavo di essere dentro un film e
mi vedevo tutta la scena da fuori, con questa giovane prof inesperta che andava
verso la sua giornata dentro una Lancia azzurrina. Altre volte desideravo il
silenzio, ad esempio quando ero un po’ inquieta per una mattinata pesante in
arrivo, oppure se ero particolarmente felice. Così felice che non serviva
nient’altro.
E la musica non è servita, a fine giugno, a esami orali finiti, mentre
tornavo a casa coi finestrini abbassati, finalmente libera da ogni incombenza
scolastica. Libera di mettermi i jeans strappati. Libera di fare tardi un
venerdì sera. Libera di andare dall’estetista e preparare la borsa del mare.
Non è servita la musica perché era già forte nell’aria, potentissima nelle mie
orecchie, così gloriosa e eccitante come solo le giornate memorabili sanno
suonare: nel sole dell’estate risentivo quei “prof”, quelle voci squillanti, e
forse solo lì mi sono davvero resa conto che in classe, quelle venti facce un
po’ adulte e un po’ bimbe, non le avrei
proprio viste mai più. Chissà se si piange ogni volta. Immagino di sì.
E chissà l’estate dei ragazzi. Saranno andati in giro in bicicletta o saranno
scappati al mare coi genitori, magari la sera avranno avuto il permesso di
prendere un gelato fra amici. Crederanno di essersi lasciati alle spalle
un’impresa epica e immagineranno la scuola nuova pieni di aspettative e di
sogni, con quel misto di attrazione e timore che sempre proviamo per ciò che
deve arrivare.
Ogni volta succede anche a me: la strada dell’insegnante è fatta di
tante storie, di tanti inizi, di tanti addii e arrivederci. Spesso il 30 giugno
significa vacanza ma anche disoccupazione, il che comporta una distesa
eccitante e inquietante di mesi liberi
che si srotolano di fronte ai miei piedi, come un tappeto costellato di
interrogativi, diretto non si sa dove. Fortunatamente non sono il tipo che si
fa prendere dall’ansia – non più – e a fine giugno il mio tappeto lo immaginavo
azzurro come un cielo pulito, vagamente profumato di salsedine e inondato di un
sacco di sole. Tutto sommato non mi dispiace quando le cose finiscono, se me le
sono gustate per bene. Che non significa senza ferite.
Soprattutto perché niente avrebbe inizio, se nulla finisse. Io oggi
non avrei questa bella agenda vuota tra le mani, e questo settembre carico di
promesse a tenermi sveglia la notte per l’impazienza. Che chi l’ha detto, poi,
che ciò che è stato sia meglio di quello che sarà? Pronta a farmi travolgere e
stupire dai piccoli grandi uomini che anche quest’anno, ancora una volta,
incontrerò sulla mia strada.