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Foto di Elena Orsi :) |
Quella sera avevo tutto. C’eravamo io ed Elena
sedute a un tavolino rotondo con i nostri genitori, in attesa che iniziasse la
musica. Mi ero messa un vestito lungo di cotone, di quelli che a Imola non
indosserei mai, e lo avevo stretto in vita con un foulard giallo, perché in
valigia non avevo portato nessuna cintura. Il bar era lo stesso di sempre ma con
una veranda nuova, aperta sulla spiaggia, fatta di assi di legno bianco dove
Spotty stava accucciato senza smettere di scodinzolare, soprattutto quando la
cameriera scriveva le ordinazioni e poco dopo arrivava col suo vassoio di
calici, spritz e un mohito, una ciotola di noccioline, qualche cappero fresco. Non
c’era bisogno di dirsi qualcosa, non per forza, come sempre quando sono in
vacanza coi miei: è il momento in cui mi sento da sola eppure insieme, ed è
bello sapere cosa ci piace senza doverlo precisare o dimostrare. Piano piano si
riempivano i tavolini accanto, e c’erano anche dei gruppi di amici giovani,
qualche comitiva venuta da Roma per il weekend, ma per quanto immaginassi che
quella vacanza tra ragazzi doveva essere una pacchia, non avrei mai fatto a
cambio con la mia settimana in famiglia, nel posto che amo di più al mondo,
insieme ai tre personaggi che mi hanno fatto ridere e piangere più di chiunque
altro. La sabbia a chicchi grossi stava diventando rossa mentre il sole
scivolava verso il mare, e il faraglione era una sagoma nera ritagliata contro
il cielo. Mi divertivo a chiamare “gallinelle” i gabbiani che zampettavano tra
gli ombrelloni ormai chiusi, e un po’ invidiavo quelli che galleggiavano sull’acqua,
abbandonati a quel tramonto liquido e alla cantilena delle onde. Quando penso a
quella spiaggia ho in mente un profumo di sale che forse nemmeno si sente, magari
è solo nella mia fantasia, ma ce l’ho dipinta così bene dentro che le immagini
non bastano: i ricordi sono una pozione di odori, di suoni e di luci più veri
della realtà. Ho sempre avuto l’impressione che quell’isola sapesse quando io c’ero,
che mi parlasse mediante il vento e mi tenesse stretta come una grande mano
fatta di roccia e di pini. Non so se esista anche il resto dell’anno, quando io
sono lontana: se il pesce continui a riempire le reti del porto e le buganvillee
continuino a riempirsi di calabroni, se le campane della chiesa suonino nell’aria
tersa del mattino e i tramonti si ripetano ogni sera puntuali. Non credo, non
adesso che non ci sono io.
Comunque quella sera una signora suonava l’arpa,
posizionata sulla sabbia a metà strada tra noi e il mare. Era bionda e aveva
gli occhiali scuri, mani leggere e un abito bianco, leggero anche lui, con la
gonna fino a terra. Nel silenzio speciale della musica, quando tutti stanno
zitti ma c’è un gran brusio di pensieri, io ricordo di essermelo detta
chiaramente: mai, mai più nella mia vita, mi sarei privata di qualcosa che
potesse farmi felice come quella sera, con quell’isola, il tramonto, la musica
e i miei compagni di viaggio.