Mobiletto dei nonni dipinto d'azzurro, vecchio boccale di birra, fiori secchi offerti dalla suocera, piccolo e bizzarro portaoggetti in ceramica della mia mamma Anna Rita Barulli :) |
Tra i costumi del genere umano
dialogare è il processo più strano:
in teoria, grazie a un breve alfabeto,
ogni fatto, anche il meno consueto,
può esser detto e così condiviso,
può far piangere o nascere il riso,
può far bene ma a volte fa male,
se ne è degno diventa immortale.
Suoni e segni in migliaia di anni
per esprimere gioie ed affanni,
ma nel tempo qualcosa non muta:
molto spesso la parte taciuta
ha più peso di ciò che diciamo,
e l’assurdo è che non ci capiamo.
Quante volte nel dire “stai attento”
ci lasciamo scappare un accento
che ricorda un rimprovero teso
e l’intento rimane incompreso.
Quante volte si dice “sto bene”?
Tanto sfoggio di vite serene
colte da un’improvvisa violenza.
“Stava bene!”: la sciocca sentenza.
E vorremmo gridarci S.O.S.
con parole che restano impresse
dentro gli occhi, le rughe, le mani,
ma tacciamo e restiamo lontani.
Teste piene di frasi azzeccate
che poi a voce si sono storpiate,
come tutti quei “grazie” e “ti amo”
ben nascosti dentro un “ci vediamo”,
quelle scuse, quei “voglio parlare”
trasformati in un “lasciami stare”.
Dai milioni di frasi mai dette
ne potremmo isolare sei o sette
che condensano tutti i pensieri
di domani, di oggi e di ieri,
perché se la retorica è un trucco
è poi facile giungere al succo:
“Mi fa tanta paura la morte”,
“E va bene, non son così forte”,
“Per favore non lasciarmi solo”,
“Sto cercando di prendere il volo”,
“Ho bisogno che mi ami e lo dici”,
“Voglio solo che siamo felici”.
Sono questi più o meno i concetti
che ci battono in fondo, nei petti,
e dovremmo tenere presenti
anche quando ci mostrano i denti…
Che se il dialogo a volte è bugiardo
niente riesce a ingannare uno sguardo.