Chi si chiede cosa si fa qui si rassereni: esattamente non lo sa nessuno.
Io ci metto qualche parola e qualche foto.
Con un'unica regola: solo finché mi fa felice.

mercoledì 31 dicembre 2014

L'unico tempo che esista

Io, un buffo cane travestito da pupazzo, la neve, e la fotografa Elena Orsi 

Caro duemila e quindici, siccome sei ormai alle porte
ho qualche consiglio da darti in merito alla mia sorte.
Se porterai pace e fortuna, ricchezza, amicizia e salute,
bè, serve che te lo dica? Saranno le benvenute.

Per non apparire venale potrei disdegnare il denaro:
potrei suggerirti di darlo a chi ha avuto un anno più amaro
di me, che poi tutto sommato, non devo granché lamentarmi…
Non darlo però a chi lo spende per favoritismi, per armi,
per crimini grandi e meschini o per violentare il pianeta
(che eppure continua ad amarci, per qualche ragione segreta).

Vorrei un anno dove l’amore sia folle ma tenero e placido,
lontano anni luce da botte, minacce e vendette con l’acido,
un anno in cui l’amicizia sia fatta di incontri dal vivo
e non ci si affidi alla Apple per colmare un vuoto affettivo.

Duemila e quindici caro, in quest’anno nuovo che viene
fai stare i nipoti coi nonni, dai vita a famiglie serene,
regala alle mogli e alle suocere un po’ di risate di pancia,
insegna alla gente a baciarsi… davvero, toccando la guancia!

Ricordaci che avere ragione, a volte, non serve a un bel niente,
e che una persona felice è meglio di una coerente.
Dissemina il nostro cammino, se proprio vuoi farci piacere,
di cose non “giuste” o “sbagliate”… piuttosto di cose “vere”.

Caro duemila e quindici, a parte gli scherzi e gli auguri,
mi auguro che non speriamo soltanto in progetti futuri
ma che piano piano impariamo, magari, a non perder di vista
il tempo presente che, in fondo, è l’unico tempo che esista.

Abbiamo bisogno di simboli, di riti e momenti di festa…
Ma il meglio sta in ogni momento di tutta la vita che resta
anche dopo le cene, le danze, i brindisi, i botti e i regali,
cercando l’incanto nascosto nel tempo dei giorni normali.

martedì 16 dicembre 2014

Come il cono col gelato


Dopo tutti questi anni, arrivederci e bentornati,
ho pensato che due versi te li fossi meritati.
Mica facile trovare le parole più calzanti
a una cosa solo nostra, che però appartiene a tanti,
che conoscono dovunque, da ogni parte del pianeta,
e però, allo stesso tempo, rimarrà sempre segreta.

Etichette non ne uso, non darò definizioni,
ma fa rima con il “cuore” di milioni di canzoni.
Forte fragile e assoluto, sempre uguale ma diverso,
qualche volta ti indirizza poi ti fa sentire perso,
va a toccare strani fili del gomitolo che siamo
e li tesse in nuove trame, ma non sempre le capiamo.

La bugia più colossale che qualcuno si racconta
è che quando l’hai trovato tutto il resto poi non conta,
ma io credo fermamente che l’amore (mi è scappato)
possa essere più o meno come il cono col gelato:
ti sostiene e questo è bello, dolce e molto confortante,
ma se tu, lassù, ti squagli, resta poco di importante.

Sono molte, a dire il vero, le menzogne sul suo conto:
che non possa esserci un’alba se c’è stato già un tramonto,
che ci siano convenevoli e passaggi obbligatori,
che il suo esito dipenda dai tuoi pregi o dai tuoi errori,
che non rappresenti un viaggio ma piuttosto sia la meta,
che si esprima a complimenti, paroloni da poeta.

Paroloni non ne vuole, la retorica la schiva:
io da lui voglio soltanto che mi renda ancor più viva,
ed è spesso coi dettagli che sembravano da niente
che mi svela che un “regalo” puoi chiamarlo anche “presente”.
Perché Dante sarà andato in paradiso con Beatrice,
ma non penso l’aiutasse mai con una lavatrice.

C’è chi cerca di fissarlo con un selfie, o un tatuaggio,
ma l’amore chiede tutto un altro tipo di coraggio…
ed il bello è che per quanto io sia sciocca e limitata
è un coraggio misterioso, che però è alla mia portata.
Grazie a te che qualche volta sembri il nastro da tagliare
ma in realtà non sei il mio arrivo: sei il mio fiume verso il mare.

lunedì 8 dicembre 2014

Fortuna che a volte ci si ri-innamora


Qualche anno fa non sapevano ancora
che avrebbero quasi toccato il fondo
per poi, quasi nuovi, tornare al mondo:
fortuna che a volte ci si ri-innamora.
Per fare i gioielli più rari e preziosi
si usano perle rugose e imperfette…
l’amore più vero non segue ricette.
Adesso e per sempre: evviva gli sposi.

domenica 7 dicembre 2014

Certe scelte sembrerebbero una fuga


Qualche volta si vorrebbe fare finta
di esser forti , senza il minimo timore,
ma una maschera, per quanto ben dipinta,
prima o poi dovrà vedersela col cuore.
Certi giorni siamo come circondati
da modelli così fulgidi e perfetti
che a confronto ci sentiamo inadeguati,
traboccanti di mancanze e di difetti.

Ci chiediamo cosa abbiamo combinato
di salvabile, almeno fino adesso,
come se il nostro valore fosse dato
da un curriculum stracolmo di successo.

Un curriculum perfetto si può fare:
l’importante è tenere ben lontani
quei problemi che, dovendoli affrontare,
rischieremmo di sporcarci un po’ le mani.
Basta togliere alla vita un po’ di cose
(riso e lacrime ad esempio, e la paura,
e le spine, ma con loro anche le rose,
qualche amico, e con lui la “scocciatura”,
di affrontare tutto quello che è diverso
dalla nostra personale presunzione).
Sono certa che così sarebbe perso
tutto ciò che invece merita attenzione,
ma di certo ne usciremmo più brillanti,
senza fastidiose rughe di espressione:
di bellezza e di sorrisi mendicanti,
ma vicini più che mai alla perfezione.

Ma “perfetto” è sinonimo di morto,
di finito, di già sazio, di esaurito…
Che sia meglio costruire un ponte storto,
ma che punti dritto verso l’infinito?

Programmiamo pure tutto nel dettaglio,
che la vita degli schemi se ne infischia:
qualche volta premia più chi fa uno sbaglio,
chi sa uscire dal sentiero, quindi rischia,
e chi riesce a dire “no” quando ci vuole,
anche quando tutto il mondo si aspettava
da noi tutto un altro tipo di parole.
Beh non mi interessa proprio essere “brava”.

Mi interessa che in futuro ogni mia ruga
testimoni tutti quanti i miei insuccessi:
certe scelte sembrerebbero una fuga,
però sono appuntamenti con noi stessi.
E chissà, sarò un disastro? avrò il mio posto?
Cosa c’è di male in qualche cicatrice?
Non m’importa esser perfetta ma piuttosto
voglio essere un disastro, ma felice.

venerdì 14 novembre 2014

Volate via

Non volevo mai sbagliare…
Poi, scoperta straordinaria:
è impossibile volare
se non salti un po’ per aria.

























"Volatevia" è un'opera di Anna Rita Barulli... ce ne sono tante altre qui.
Ah, dimenticavo: tra le sue creazioni ci sono anche io :)

mercoledì 15 ottobre 2014

Per questo siamo belli

Una sciocchezza così, per sorridere un po' e per prenderci un po' in giro. Per tutti quelli che ogni mattina si svegliano con un piccolo grande progetto, lo boicottano abilmente durante il giorno - attimo per attimo - e all'alba successiva, come fossero nuovi di zecca, non vedono l'ora di riprogettare tutto daccapo. Non con meno fiducia, ma con entusiasmo raddoppiato.

Foto invitante di Elena Orsi :)

La dieta, lo sappiamo, comincia dal mattino,
però se a colazione ti fai prender la mano
puoi sempre compensare cassando uno spuntino
di qui al prossimo pasto… fortuna che è lontano!

Ma ahimé verso le dieci, se arrivano i colleghi
facendo grandi annunci di party o promozioni,
ti danno un pasticcino… tu cosa fai, lo neghi?
Sarebbe da altezzosi, da snob e da cafoni!

Tranquilli ad ogni modo, i giorni sono lunghi…
puoi ancora eliminare qualcosa dal tuo pranzo:
bocciate le crespelle, promuovi solo i funghi…
sarai già così sazio che lascerai l’avanzo.

Però il destino è strano, è subdolo, una peste:
proprio oggi hai dichiarato la guerra ai carboidrati
ma i tuoi hanno ben pensato di anticipar le feste
e in tavola c’è un rotolo da guinnes dei primati,
piadine che la sagra di Dozza se le sogna,
fritture così bionde che neanche la Lecciso,
polpette da riempirti a mo’ di una zampogna.
A mente già progetti un mese solo a riso.

Ancora per stavolta onorerai il banchetto…
fortuna che poi a cena, da solo, starai in occhio:
senz’altre tentazioni potrai stare a stecchetto,
una tisana al massimo, al gusto di finocchio.

Ed ecco finalmente il rito della sera.
Avvolto nel pigiama, il bollitore pronto,
deciso a non arrenderti sopra alla zuccheriera,
ti chiedi se col miele sia forse un altro conto.

Ma ecco che un barattolo sfuggito ai tuoi controlli
ti guarda da una mensola con fare interessato,
eppure sei sicuro, sei fermo, tu non molli…
a patto che i biscotti non siano al cioccolato!
Sono il tuo punto debole quei cookies maledetti
e senza controllarla si allunga già la destra,
si avvolge intorno al tappo, rimandi i tuoi progetti,
ripassi mentalmente gli orari di palestra.

Controlli il calendario: “Ma gente, è martedì!”
Si sa, una nuova impresa, se vuoi che non sia vana,
va inaugurata sempre soltanto il lunedì:
hai tempo per pensarci, quasi una settimana.

Per questo siamo belli: per tutti i fallimenti
che irrimediabilmente, ahimè, collezioniamo.
Eppure basta poco per rinfrescar gli intenti:
il bello è che di crederci, noi no, non ci stanchiamo.

martedì 14 ottobre 2014

Dedicato a chi ha sessant'anni



Dedicato a chi ha sessant’anni, e non avrebbe mai immaginato
che a quest’età, anziché andar in pensione, sarebbe stato cassintegrato.
Avreste voluto comprarci una casa, o perlomeno pagarci l’affitto:
più che un dovere da padri a figli, sarebbe stato un vostro diritto.
Noi che di anni ne abbiamo trenta - le nostre lauree, i nostri bei voti -
non vediam l’ora di farci coraggio, guardarvi crescere i vostri nipoti,
prendere tutte le idee che ci vengono, fino alla nostra speranza più ardita,
e trasformarle in quel volo pazzesco generalmente chiamato vita.
Voi che oggi avete la lacrima facile, e facilmente pensate “ho fallito”,
tenete a mente che a noi non importa reggere in piedi alcun tipo di mito
dove i più vecchi non possono chiedere e dove i padri non piangono mai.
Noi non abbiamo paura di dirlo: è un mondo duro. Siamo nei guai.
Ma siamo insieme, scusate se è poco! Voi non dovete temere per noi.
Sessantottini, ex idealisti, ci volevate sembrar degli eroi,
vi sognavate pensioni serene, casette al mare e un gruzzolo in banca,
ma vi trovate più tesi di sempre, col corpo esausto e l’anima stanca.
Noi che i contratti senza scadenza dobbiam guardarli col cannocchiale,
che alla pensione già ci crediamo come si crede a Babbo Natale,
non ci offendiamo se di paghetta non ci potete offrire un granché:
i genitori che pensano a tutto sono soltanto un desueto cliché.
Ma se volete farci un regalo, dormite di notte e svegliatevi nuovi,
dite a voi stessi – e ditelo a noi – che non c’è rimedio che non si trovi;
cercatevi dentro un sorriso pulito, che della crisi non sappia niente,
e ricordatevi quanto era bello potere cedere a un atto incosciente
quando il destino era tutto da scrivere ed eravate scrittori ambiziosi.
Forse vi sembra di aver scritto male, ma avete scritto quello che siamo.
Che ci crediate o no non importa: è un mondo duro, eppure lo amiamo.
Forse noi giovani siamo il futuro, ma voi ci dovete aiutare a fiorire.
dedicato a chi ha sessant’anni: guardate che il bello deve ancora venire.

domenica 14 settembre 2014

Cominci l'avventura



Settembre è il mese in cui ogni sogno nel cassetto,
ancor più che a gennaio, si muta in un progetto.
È il mese dei propositi, delle ottime intenzioni:
“Mi impegnerò nei compiti, e non farò eccezioni!
L’analisi dei verbi non avrà più segreti,
mi piacerà l’Iliade più degli strozzapreti,
la geografia e la storia saranno le mie amiche
e leggerò soltanto letture serie e antiche.”
Abbiamo esagerato, si vuol sdrammatizzare,
ma questo è un gran momento, perfetto per sognare.
Come ogni nuovo inizio, settembre ci interpella:
sta a noi farne l’esordio di un’avventura bella.
Ogni ragazzo è un fiore, e sai qual è l’aiuola?
È il regno in cui si cresce: noi lo chiamiamo scuola.

La scuola è come il mondo, è fatta di ombra e luce,
a volte mi respinge, a volte mi seduce,
a volte sono perso, ne ho quasi un po’ timore,
ma inaspettatamente, a volte, tocca il cuore.
Vorrei che la mia scuola parlasse il mio linguaggio,
vorrei che mi insegnasse l’amore ed il coraggio,
vorrei che mi indicasse qual è il sentiero buono
che mi conduca fino a rivelar chi sono.

Se il viaggio è fatto insieme a amici e professori
diventano occasioni preziose anche gli errori,
ed ecco che la scuola non mi fa più paura:
son vivo, sono pronto… cominci l’avventura.

lunedì 25 agosto 2014

Quella volta che l'Estate ha deciso di scappare


Quella volta che l’Estate ha deciso di scappare
ha deluso gli entusiasmi di chi pregustava il mare,
ha deluso Studio Aperto, dove già la redazione
preparava le interviste su calura e solleone,
ha deluso anche i patiti delle gite su in montagna,
sollevando ovunque un’unica, comune, nota lagna:
“Ma l’Estate, quest’estate, pensa poi di farsi viva?
E i bikini che ho comprato? E la tintarella estiva?
Chi poteva immaginarlo? Questa estate ha perso il lume…
È da marzo che in palestra penso alla prova costume!”

Credevamo fosse saldo, giudizioso e equilibrato,
ma anche il Sole si è stufato di esser dato per scontato.
Se non è scontato lui, che ha un intero cosmo intorno,
figurarsi se è scontato qualche istante del mio giorno.

mercoledì 13 agosto 2014

Quella sera avevo tutto

Foto di Elena Orsi :)

Quella sera avevo tutto. C’eravamo io ed Elena sedute a un tavolino rotondo con i nostri genitori, in attesa che iniziasse la musica. Mi ero messa un vestito lungo di cotone, di quelli che a Imola non indosserei mai, e lo avevo stretto in vita con un foulard giallo, perché in valigia non avevo portato nessuna cintura. Il bar era lo stesso di sempre ma con una veranda nuova, aperta sulla spiaggia, fatta di assi di legno bianco dove Spotty stava accucciato senza smettere di scodinzolare, soprattutto quando la cameriera scriveva le ordinazioni e poco dopo arrivava col suo vassoio di calici, spritz e un mohito, una ciotola di noccioline, qualche cappero fresco. Non c’era bisogno di dirsi qualcosa, non per forza, come sempre quando sono in vacanza coi miei: è il momento in cui mi sento da sola eppure insieme, ed è bello sapere cosa ci piace senza doverlo precisare o dimostrare. Piano piano si riempivano i tavolini accanto, e c’erano anche dei gruppi di amici giovani, qualche comitiva venuta da Roma per il weekend, ma per quanto immaginassi che quella vacanza tra ragazzi doveva essere una pacchia, non avrei mai fatto a cambio con la mia settimana in famiglia, nel posto che amo di più al mondo, insieme ai tre personaggi che mi hanno fatto ridere e piangere più di chiunque altro. La sabbia a chicchi grossi stava diventando rossa mentre il sole scivolava verso il mare, e il faraglione era una sagoma nera ritagliata contro il cielo. Mi divertivo a chiamare “gallinelle” i gabbiani che zampettavano tra gli ombrelloni ormai chiusi, e un po’ invidiavo quelli che galleggiavano sull’acqua, abbandonati a quel tramonto liquido e alla cantilena delle onde. Quando penso a quella spiaggia ho in mente un profumo di sale che forse nemmeno si sente, magari è solo nella mia fantasia, ma ce l’ho dipinta così bene dentro che le immagini non bastano: i ricordi sono una pozione di odori, di suoni e di luci più veri della realtà. Ho sempre avuto l’impressione che quell’isola sapesse quando io c’ero, che mi parlasse mediante il vento e mi tenesse stretta come una grande mano fatta di roccia e di pini. Non so se esista anche il resto dell’anno, quando io sono lontana: se il pesce continui a riempire le reti del porto e le buganvillee continuino a riempirsi di calabroni, se le campane della chiesa suonino nell’aria tersa del mattino e i tramonti si ripetano ogni sera puntuali. Non credo, non adesso che non ci sono io.

Comunque quella sera una signora suonava l’arpa, posizionata sulla sabbia a metà strada tra noi e il mare. Era bionda e aveva gli occhiali scuri, mani leggere e un abito bianco, leggero anche lui, con la gonna fino a terra. Nel silenzio speciale della musica, quando tutti stanno zitti ma c’è un gran brusio di pensieri, io ricordo di essermelo detta chiaramente: mai, mai più nella mia vita, mi sarei privata di qualcosa che potesse farmi felice come quella sera, con quell’isola, il tramonto, la musica e i miei compagni di viaggio.

sabato 3 maggio 2014

Ci sono storie – romanzi, film – che sono architetture perfette.

L'Isola del Giglio e me... le foto e il mix sono di Elena Orsi :)

Ci sono storie – romanzi, film – che sono architetture perfette. Capolavori intrecciati così stretti, così ricchi di dettagli e richiami, che sembrano frutto di fantasie eccezionali. Compare un personaggio marginale, un po’ anonimo o addirittura irritante, e non facciamo in tempo a chiederci “ma che c’entra questo qui? Perché se lo sono fatto scappare dalla penna?” che torna sulla scena qualche decina o centinaio di pagine dopo e svela il suo scopo fondamentale, traboccante di senso. Ha così tanto senso, improvvisamente, che ci sentiamo stupidi a non averlo capito prima. Oppure l’autore indugia su un dettaglio di poco conto, ci costringe a guardarlo bene, a immaginarcelo come se fosse vero – con certi colori precisi, un odore, una consistenza non casuale – e improvvisamente ce lo ritroviamo protagonista della storia, o di un bel pezzo di essa, come fosse un amuleto. E guai se non ci fosse stato. Nelle storie di fantasia ci sono sfide vinte anche quando nessuno ci avrebbe scommesso un soldo, successi insperati e riscatti inattesi. Ci sono strappi, rotture e riassortimenti bizzarri. Ci sono desideri che si avverano, sì, ma solo alla fine di innumerevoli peripezie che qualcuno ha inventato con maestria. Ci sono ostacoli che si rivelano trampolini, e grandi occasioni che si rivelano trappole. Lo scrittore dà vita a coincidenze incredibili, fraintendimenti, colpi di fortuna esagerati. Situazioni paradossali, che fanno piangere o fanno ridere, e che dipendono in tutto e per tutti da un equilibrio fragilissimo: se solo quel minuscolo particolare fosse andato diversamente, se solo i tasselli si fossero incastrati con un po’ meno armonia (o ironia), niente sarebbe successo. Non così, non scatenando quel putiferio, o quella meraviglia. Poi un giorno alzi gli occhi dal libro e ti accorgi che nessuno ha inventato niente, perché così è la vita. La rileggi al contrario, torni all’inizio della storia, e finalmente ti piace. È un’architettura così precaria, così sgangherata e così perfetta che a quell’autore, se lo incontrassi, gli chiederesti un autografo

domenica 20 aprile 2014

Si rinasce un po' tutti, dopo il letargo... Buona Pasqua!

Dopo qualche settimana di assenza - un'assenza ricca e piena, fatta di tutto quello che non si può battere a computer! - eccomi ad augurarvi una buona Pasqua. Che è come augurare una corsa sotto l'ultima pioggia leggera, mentre timido spunta il sole, o una lunga passeggiata in salita che finisca nel panorama più vertiginoso possibile. Buon risveglio da quel letargo che a volte ci piace tanto, ma poi ci fa venire un'irrefrenabile voglia di andare.





Buona Pasqua a chi per mesi l’ha pazientemente attesa
per la carta variopinta, il cioccolato e la sorpresa;
buona Pasqua a chi per ora, nelle uova colorate,
vede il senso della festa che è a metà tra inverno e estate.
Buona Pasqua a chi la Pasqua non l’ha mai capita tanto:
non è al pari del Natale, col suo eccezionale incanto,
non è come a Ferragosto (anzi, a Pasqua piove spesso!)…
per qualcuno, non ci fosse, quasi quasi fa lo stesso.

Buona Pasqua a chi ha la fede, buona Pasqua a chi l’ha persa,
buona Pasqua a chi la cerca o a chi la vuole un po’ diversa,
buona Pasqua a chi è da solo ma ha bisogno di un abbraccio,
buona Pasqua a chi si chiede “ma avrà senso quel che faccio”?
Tanti auguri a chi, stremato, sogna solo le vacanze,
buona Pasqua a chi per Pasqua coprirà grandi distanze
per riunirsi coi parenti con un solo desiderio:
di raggiungerli col cuore… di raggiungerli sul serio.

Buona Pasqua a chi riposa e non chiede più di questo,
ma ha il sospetto che la Pasqua abbia dentro anche del resto.
C’è chi crede in qualche cosa e c’è chi non crede a niente,
c’è chi corre alla ricerca di un amore che non mente,
chi si sente un po’ arenato e ha bisogno di una spinta,
chi ha bisogno di frenare dopo mesi tutti in quinta.

C’è un sentore, dolce e grande, che però accomuna tutti:
è la voglia prepotente di tornare a dare frutti,
è un bisogno di riscatto, della nostra primavera,
è il bisogno di sapere che anche quando si fa sera
c’è un mattino che ci aspetta, e su questo non ci piove.
Siamo rami scricchiolanti ma con gemme sempre nuove.
È una voglia con un nome… non mi sembra presunzione
dire chiaro che abbiam voglia tutti di resurrezione.

Accipicchia, ho esagerato? Mi son fatta trasportare…
è che ho un’anima esigente, non si riesce a accontentare.
Si rinasce a proprio modo: ci si arrabbia, un po’ si muore,
poi però, dopo la neve, sul balcone spunta un fiore.
Il dolore esiste eccome, ce l’abbiamo dentro e intorno,
non è facile affrontare l’avventura di ogni giorno,
ma nell’ottica infinita di una vita tutta intera
ogni anno c’è la Pasqua… torna sempre primavera. 


Buona Pasqua a tutti!

mercoledì 2 aprile 2014

Prima di te, non lo avevano ancora inventato



C’è quel momento in cui hai bisogno che le parole siano carezze. È una fase: ci si passa. Io, almeno, ci sono passata. Hai bisogno che le parole ti proteggano, ti rassicurino; ti definiscano anche un po’. È la fase in cui dici “andiamo a prenderci un caffè” anche se il caffè non ti è mai piaciuto, perché “andare a prendere un caffè” sembra un rituale così bello e così ampiamente condiviso, così legittimo, che sei sicura di averne bisogno anche tu, ed è importante che si chiami proprio così. È quando la sera ordini un Margarita e ti compiaci di quanto sia languido quel nome – Margarita - e quanto ti piace dirlo con noncuranza studiata – Margarita - perché ti immagini che l’eroina dei tuoi pensieri, quella che vorresti essere e far vedere al mondo, ordinerebbe quello e lo direbbe così. È una fase strana, non è sempre facile. Perché aspetti certe parole e ne arrivano altre; magari arriva un silenzio ma avevi previsto un “ti amo” o un “sei bellissima”, “stai bene così”, e Dio solo sa quanto ne avevi bisogno, e quanto è indicibilmente pesante la giornata – la vita – senza quelle parole lì. Quanto assomiglia all’infelicità. È una fase in cui dici “bene”. Ti chiedono come stai e neanche li lasci finire, dici “bene”, cos’altro dovresti dire? Esiste una risposta, una parola più brava a coccolare te e chi hai di fronte in un colpo solo? A cullarvi, senza che dobbiate ferirvi, senza andare a scavare laggiù, che alzereste un gran polverone ma non ne ha voglia nessuno, davvero. È la fase in cui vuoi sapere cosa sei. Vuoi un’etichetta, ce l’hanno tutti, come farai tu senza la tua etichetta? Senza il tuo titolo, la tua laurea, senza una bella lista di abilità da snocciolare sul curriculum, nero su bianco? E non basta mica dire cosa vuoi fare, cosa sogni, per cosa piangi: bisogna dire che cosa sei. Ci vuole una parola che ti metta al mondo, altrimenti cosa vuoi pretendere.

Poi finisce. Tranquilli, davvero. Finisce.

Come un rumore di fondo che quasi non sentivi più: un ronzio, un soffio, un fruscio costante, di quelli che ci sono ma ormai li hai dimenticati, tipo la ventola del computer o il lamento del frigorifero. Quando finiscono è un sollievo, è una liberazione. Non li sentivi, andava bene così, ma quando se ne vanno è meglio, è una vita nuova. “Che bel silenzio!” Ti viene da dire. Che bella vita, improvvisamente, quando etichettare le cose ti interessa un po’ meno. Quando vuoi essere una poesia, e non t’importa se il mondo non sa leggere. Quando non si tratta di ricalcare un capolavoro, ma di sbizzarrirti nel tuo scarabocchio. Di fare il tuo disegno. E certo che non ha nome e non ha prezzo, per forza: prima di te, non lo avevano ancora inventato.

lunedì 24 marzo 2014

La parola desiderio ha a che fare con le stelle

Desiderio è forse la mia parola preferita. Per molti motivi, ma uno soprattutto: in 9 lettere condensa le storie degli uomini e la storia del mondo, parla di noi e parla dell’universo, dice quello che vorremmo, quello che abbiamo e quello che ci manca. È un concetto familiare, come “mamma”, come amore, come il profumo del caffè la mattina o quello dell’erba tagliata. Però, nello spazio di 9 lettere e 4 sillabe, senza che ce ne accorgiamo, schizza verso il cielo, le stelle, altri mondi.

Perché potremmo spendere pagine e pagine a definire il desiderio, chiederci che cos’è e che cosa significa.
Ma alla fine il desiderio è fatto di “de” + “sidera”, e questo dice già tutto.
“Sidera” significa stelle, e quel “de” è una particella che indica allontanamento da qualche cosa. Non lontananza, ma allontanamento: non semplice assenza, ma separazione. La parola desiderio ha a che fare con le stelle, ma non dice che non le abbiamo… dice che non le abbiamo più.

Un pezzettino di stelle, se davvero le abbiamo avute, deve esserci rimasto in tasca per sbaglio. Una scheggia tra le dita, un granello fra i capelli, che ne so. E in effetti,  a guardarle lassù - così lontane e perfette - un magnete si attiva, e all’improvviso sembra chiaro che con loro, in qualche modo, c’entriamo anche noi.

(continua sotto...)



La parola desiderio ha a che fare con le stelle.
Con lo sguardo che va al cielo vedi il buio, vedi quelle,
e hai la sensazione strana che in passato le hai toccate:
familiari come cose possedute e poi scordate.

Ogni tanto, nella noia, un indizio sorprendente
sembra andare a risvegliare qualche cosa di potente
che ci scava dentro il petto, non si placa, batte forte,
sembra dirci che siam fatti per sconfiggere la morte,
per volare, per gridare, per cantare a squarciagola
la canzone di una vita che è infinita ma è una sola.

Desiderio è quella cosa che vuoi sempre, e ti possiede,
una musica lontana che ti fa battere il piede
anche se non sei sicuro… non sai bene che cos’è:
ha i contorni un po’ sfocati, ma decisamente c’è.
Indomabile, mai sazio, non ha fine il desiderio…
forse quello che ci chiede è di prenderlo sul serio,
di decidere una volta se far come fosse niente
o provare ad inseguirlo e cercare la sorgente.

Io ho deciso di partire. Il bagaglio è quasi vuoto:
basta poco per un viaggio verso un desiderio ignoto.
Serve voglia di capire cosa ci alimenta il cuore,
serve qualche bel ricordo, qualche affetto, qualche errore,
serve un sogno grande e bello, che sia veramente mio,
e ovviamente, per partire – vera e sveglia – servo io.

venerdì 21 marzo 2014

Benedetta Primavera


Siamo semplici e infiniti, così semplici e assetati che nessuno di noi sarebbe stato capace di crearci. 
È troppo difficile una semplicità così bella per essere inventata sulla Terra. 
Complicata. E semplice. Si capisce che siamo semplici perché ci basta un po’ di sole in faccia. Una musica in testa. Ci ricordiamo che vogliamo proprio essere qui, e ci sentiamo amati o al massimo, se non lo sentiamo, capiamo quanta voglia ne abbiamo. Di essere amati dico. Non c’è muro che tenga, maschera o gioco di ruolo: il sole ci trafigge il cuore, sempre, e ci ferisce come feriscono le cose vere. Che fanno piangere e ridere insieme. Ci ricordano che siamo umani, e non importa se ci fanno sorridere o desiderare la morte: alla fine è sempre l’amore che sentiamo. Come presenza o come assenza. 
L’assenza più presente che ci sia.

Buon primo giorno di Primavera a tutti!

mercoledì 19 marzo 2014

Il mio babbo preferito

Sì lo so, la festa del papà è l'ennesima festa del consumismo. Ma se al mio gli regalo una filastrocca, tanto male non può fare...



C’era già prima di me, e magari mi pensava.
Me lo immagino ragazzo, che rideva, che cantava,
con la sigaretta accesa e la giacca in pelle nera,
jeans a zampa di elefante e un’indomita criniera.

Tante cose, son sicura, non se le era immaginate:
si potevano evitare un bel po’ di litigate,
qualche giorno di sconforto, la caduta col motore,
questa crisi che ogni giorno butta a terra il buon umore,
salutare i genitori – che per me poi erano i nonni –
e le notti così fonde da passare quasi insonni.
E d’altronde questo è il prezzo per chi vive e non è solo:
qualche volta forse sogna di poter spiccare il volo,
metter pausa alle fatiche e scappare in capo al mondo…
ma tra i compiti di un babbo c’è di andare fino in fondo.

Mi piaceva, da bambina, la sua barba profumata,
mi piaceva se chiedeva che facessi una sfilata,
mi piaceva far la lotta tutti insieme sul lettone,
mi piaceva condividere un gelato di limone.
Mi sentivo quasi eletta, fortunata a dismisura,
perché solo lui sapeva certe storie di paura,
ma il regalo più gradito, se era la giornata giusta,
era quando mi portava una bella Super Busta.

Oggi è serio sul lavoro, fa la voce un po’ impostata,
ma se a casa si rilassa la baldoria è assicurata,
soprattutto se si fanno scherzi e coccole al cagnetto
(neanche fosse un nipotino, è il suo maschio prediletto).
Quello che mi piace adesso - non vorrei niente di meglio -
è se torno a casa tardi e lo trovo ancora sveglio.
Ci mettiamo lì vicini, con Formigli o con Santoro:
quattro chiacchiere veloci, poi diciamo sogni d’oro
La mattina, a colazione, mi prepara la spremuta,
se c’è tempo mi racconta di quel casco o quella tuta
da centauro che ha acquistato per le gite dell’estate,
poi si alza e va al lavoro dopo averci salutate.

La famiglia te la becchi, non si può selezionare…
qualche volta noi tre donne l’abbiam fatto tribolare!
Ma ringrazio, col sorriso, il destino che ci ha unito:
Non ci siamo mica scelti… ma è il mio babbo preferito. 

lunedì 17 marzo 2014

30 giorni di sorprese!




Perle e Rime compie un mese e avrei potuto inventare una bella filastrocca. Di filastrocche ne ho due o tre in cantiere, salvate nella cartella "da finire", ma per fortuna oltre alle rime posso concedermi qualche perla: il titolo me lo permette. Che siano perle o accozzaglie di parole poco importa... io stamattina ho voglia di dire una cosa, e ho bisogno di dirla in prosa.

L'idea di Perle e Rime l'ho avuta l'estate scorsa. Ero su uno scoglio, davanti al faraglione: l'ho raccontato a lui con noncuranza, come si raccontano molte cose destinate a volare via. Mi ha detto "secondo me dovresti farlo"
Aveva ragione. Perché in un mese ho perso qualche ora di troppo davanti al computer, a volte sono andata a letto troppo tardi per colpa di facebook, almeno 10 volte ho pensato "questa è brutta, non piacerà a nessuno" e altre 10 mi sono chiesta "ma avrò qualcos'altro da dire?".
Però c'è di bello che non siamo isole, non galleggiamo da soli in qualche mare immenso: c'è sempre qualcuno che ci guarda e ci ascolta, e tutto quello che facciamo - piccolo o grande - si scontra con la storia e l'anima di un altro. Allora fai una sciocchezza - tipo, scrivi una filastrocca - e ricevi un mazzo di sorrisi, una manciata di commenti, qualche saluto inaspettato. Le cose prendono quella piega che non solo non avresti previsto, ma nemmeno avresti saputo inventare... eppure, con la fantasia, pensavi di cavartela bene!

Allora buon giorno a tutti quelli che anche oggi si aspettano qualcosa, ma poi saranno felici di incontrare qualcos'altro.

Vi lascio qualche pensiero scritto un paio di mesi fa... sul fare, sul cercare, e su tutti quei progetti che ci riempiono la testa.
Ci sono tante Eleonore nella mia testa. Un mazzo di carte da cui forse potrei ancora pescare: un ricco ventaglio di possibilità. C’è l’Eleonora che sarebbe potuta fuggire all’estero per un po’, studiare le lingue e conoscere facce colori sapori e immagini diverse dalle solite, e ora potrebbe parlare l’inglese più fluently e avrebbe una visione più ampia, forse, di tutte le cose, e sarebbe un po’ più cittadina del mondo. L’Eleonora che avrebbe potuto salutare il fidanzatino dell’adolescenza quando ancora quell’adolescenza non era finita, e provare altri abbracci, e provare altre notti, e forse oggi conoscere gli uomini con più esempi e dettagli a disposizione, e meno ingenuità e poesia. Ho in mente l’Eleonora che poteva scegliere architettura, e chissà, forse sarebbe diventata un po’ più brava nelle materie scientifiche e avrebbe una posizione un po’ più prestigiosa – prestigiosa in che senso, e per chi, non è poi dato saperlo – oppure l’Eleonora che dopo Lettere avrebbe potuto tentare il giornalismo e magari ce l’avrebbe fatta, magari oggi avrebbe moltissimi contatti in agenda e avrebbe migliorato la dizione e il portamento, e potrebbe anche dire la sua in qualche contesto che non sia una tavolata di amiche, un tè pomeridiano, una pagina facebook. Poi c’è l’Eleonora che avrebbe potuto imparare a suonare qualcosa, il piano, la chitarra, la batteria come sognava al liceo, e l’Eleonora dello sport, che avrebbe potuto continuare con l’atletica o forse - meglio - con la ginnastica ritmica. C’è anche quella che avrebbe potuto scegliere una scuola più inerente alla vita, e dopo le superiori avrebbe evitato l’università, e oggi forse avrebbe un conticino in banca un po’ più sostanzioso e bo, una casa? Un marito, un bambino? Ma anche l’Eleonora che avrebbe potuto mollare tutto, e partire alla volta del mondo non per una parentesi limitata, ma per andare a fondare quella scuola di yoga oltreoceano, o quella piadineria, o quel caffè letterario e altri simili sogni. C’è pure l’Eleonora che avrebbe potuto dire qualche “no” agli impegni all’oratorio, avrebbe potuto leggere di più ciò che le andava, viaggiare di più verso le mete che preferiva. Quella che avrebbe potuto ubriacarsi una, dieci, cento volte di più, farsi una canna, cercare quel brivido che a trent’anni sembra un po’ triste cercare.
Mi fanno impazzire queste Eleonore: questo squadrone di scatenate così traboccanti di progetti, e così povere di verità. A volte mi tengono sveglia di notte. Mi vengono a trovare all’improvviso, reclamano un po’ di attenzione. Ma poi succede, inevitabilmente, che vengono zittite da tutto quello che c’è. Perché quello che c’è – anche quando è ordinario, anche se sembra banale - è molto più emozionante di quello che ci sarebbe potuto essere. Dà i brividi, a pensarci. Fa venire da ridere, e un po’ anche da piangere. Quello che c’è, è tutto ciò che esiste… e esistere, già quello, non è cosa da poco.

sabato 8 marzo 2014

Una delle donne più belle della mia vita

Nel giorno della festa della donna il regalo più bello, per me, possono farselo proprio le donne: essere donne. Guardarsi allo specchio e amare il loro essere donna. Dire a gran voce che sono donne, dirlo a tutti e dirlo sempre. Ma non tanto nelle piazze... piuttosto nella vita. Dire che vogliono essere questo, niente di meno e niente di più, perché questo è già infinito. Dirlo ed esserlo, con tutto il loro corpo e quell'anima così forte e fragile. Luminosa, agitata e immensa come il mare.

Voglio raccontarvi Luisa, una delle donne più belle della mia vita.

Luisa trucca le bimbe per la recita di quinta elementare

La mia prima Maestra è stata Luisa. Non la prima persona ad avermi insegnato qualcosa, questo no. Se la questione fosse quella dovrei parlare della mia mamma e del mio babbo, della nonna, persino di mia sorella più piccola. Ma la prima Maestra con la M maiuscola - quella figura verso cui nutri rispetto e un po’ di soggezione, quella che prende l’uragano che ha nel cuore e ti ci tira dentro sperando di lasciarti qualcosa di buono – quella è stata Luisa. Lulù. 

L’abito non farà il monaco, ma penso che Luisa non sarebbe stata Luisa senza quell’apparenza un po’ eccentrica, senza quel suo farsi notare. Me la ricordo colorata. I capelli rosso rame e le labbra rosso rubino, i gioielli d’oro, gli abiti scelti con cura. La scia di profumo: colorata anche quella, piena di estate e di autunno, di primavera e di inverno. Coloratissime le sue parole: ricche come frutti succosi, opulente come lampadari di cristallo. Cascate di aggettivi un po’ desueti e grappoli di espressioni barocche, così, che cadevano generose da quel sorriso infuocato.

Ricordo che diceva di essere vanitosa. Mi sembrava se ne facesse vanto. Io non sapevo ancora bene cosa volesse dire quella parola, “vanitosa”, ma mi venne l’idea che avesse a che fare con qualcosa di molto luminoso e piacevole. Un giardino fiorito, che so. C’entrava sicuramente con il coraggio e con la voglia di ridere forte, di dire quello che si aveva in testa. Una volta un bimbo, uno di noi della A, mi pare le disse che aveva i denti un po’ gialli. Così, senza malizia, con la sincerità disarmante e bastarda che hanno i bimbi prima di essere censurati dal mondo. Lei rispose che era il colore naturale dello smalto, e che nella sua vita non aveva mai avuto problemi di dentatura, e che i dentisti non li aveva mai visti neanche da lontano. Quella volta ci insegnò un’espressione bellissima, che usai in decine o forse centinaia di temi: “avere un sorriso di perla”. Che la perla in effetti non è proprio bianca: quella artificiale sì, ma le più pregiate non tanto. Se la cavò, insomma, con estrema eleganza, e pensai fosse dovuto al suo essere vanitosa. Era bello essere vanitose, perché significava volersi molto bene. Almeno esserlo in quella maniera, con quello stile lì. Pensai che un giorno avrei voluto esserlo anch’io.

Mangiava molte mele e molti crackers integrali. Per me voleva dire che ci teneva. A che cosa non lo sapevo di preciso, ma si vedeva che ci teneva. Non so, percepivo quello spuntino come un rituale importante, una coccola che Luisa si concedeva nel bel mezzo della lezione. Me la ricordo come se fosse qui ora: appoggiata al termosifone o alla finestra, lo sguardo attento ai suoi bimbi, e intanto sgranocchiava quei crackers da grandi. Perché ai bimbi l’integrale non piace. Ma un giorno, pensavo, sarebbe piaciuto anche a me.

Due episodi ce li ho impressi nella mente, e niente e nessuno me li porterà mai via. Ci fu quella volta che Lulù seppe di aver vinto un premio letterario importante. Eravamo in classe: era un giorno come tanti, ma le arrivò una misteriosa comunicazione. E lì ci fu lo scoppio di gioia più bello e contagioso che io abbia mai visto, perché lei non si limitò certo a sorridere o a borbottare qualche frase compiaciuta, ma levò uno strillo così acuto e così lungo che posso sentirlo ancora adesso, e lo definirei “cristallino”, che è un'altra parola un po’ magica che mi ha insegnato proprio lei. Quella mattina, con quel grido da sirena che avrebbe potuto mandare in pezzi le finestre, un’ondata di euforia si impossessò di tutti noi. Me lo ricordo bene quanto mi sentivo felice, e nemmeno sapevo bene per cosa, ma la maestra aveva urlato, aveva urlato in classe… che si sa, di solito, non si può urlare mica! Che gesto di trasgressione perfetto, che irriverenza, che affronto alla banalità delle cose di sempre! Fu come se ci avessero detto di saltare sui banchi, lanciare i quaderni al cielo, correre a rotta di collo giù per le scale e andare in giardino e poi via, marinare la scuola, così, per far festa. Proprio così: quell’urlo di felicità era una festa. Perché un grande, io, non lo avevo mai visto perdere il controllo così. Che meraviglia. Essere capaci di strillare di gioia. Non è mica una cosa da niente.

L’altra faccenda che mi ricordo è quella dei mutandoni di pizzo. Perché Lulù era fissata con le storie della guerra, e ci raccontava tante cose dell’epoca dei nostri nonni. Ci diceva che la storia non è roba lontana da leggere sui libri, ma una cosa vera e bella che c’entra anche con l’adesso. Ad esempio ci portava a scuola un vecchio ferro da stiro, di ferro veramente, con lo sportellino delle braci per scaldarlo, oppure la polenta da tagliare con il filo, come facevano una volta. Quella polenta, se mi concentro, è ancora qui che fa profumo, nitida nella mia testa come fosse davanti ai miei occhi: gialla, tonda, liscia, soda e calda come una creatura vivente. Un piccolo miracolo di farina e di acqua avvolto in un panno tiepido sulla cattedra, da tagliare a fette con il filo. Ma poi, soprattutto, ci portò a scuola i mutandoni per spiegarci che una volta, le signore, gli slippini stretti di cotone se li sognavano: sotto le gonne portavano dei mutandoni bianchi coi bordi di pizzo che avevo visto addosso solo alle bambole di porcellana, quelle che stanno sulle mensole a prendere la polvere. Avrebbe potuto portarli a scuola e raccontarcelo così, in quattro parole, e magari farceli passare di mano in mano per un tocco di realismo in più (che forse già sarebbe parso strano ai più bigotti, far lezione di storia partendo dalla biancheria intima). Ma Luisa invece no: lei se li era messi addosso e salì in piedi sulla cattedra, con la gonna sollevata, che potessimo vederli bene! Anche Robin Williams ne “L’attimo fuggente” sale in piedi sulla cattedra e invita i giovani a cambiare punto di vista di tanto in tanto. Io quel film non lo conoscevo, ero ancora troppo piccola, e chissà se Luisa ci aveva pensato o aveva tratto in qualche modo ispirazione. Fatto sta che qualche anno dopo il film lo vidi, e il professor John Keating, per quanto amabile e pieno di passione, non l’ho mai trovato più eccezionale di Luisa.

Ricordo le pagelle dove scriveva piccoli temi su di noi. Conosceva i nostri passatempi e le nostre inclinazioni, e le metteva in evidenza più dei voti. Se il luogo comune vuole che il maestro dica sempre e solo due frasi sui suoi alunni – “è intelligente ma non si applica” oppure “si vede l’impegno ma mancano i risultati” – Lulù invece raccontava le nostre imprese all’uncinetto o la nostra maestria con la chitarra, il talento nella pittura o la passione per il canto. Diceva che la persona è tutto questo, e molto di più. Che scrivere un voto non bastava, e che tutto quello c’entrava anche con la scuola. Più del catechismo, più della beneficenza che avrei conosciuto qualche anno più tardi, credo che quelle pagelle mi abbiano insegnato a dare il giusto peso alle cose e alle persone. Era almeno una prima intuizione. 

Ricordo le ore di religione passate coi vecchietti, a fargli il ritratto. Il mio vecchietto aveva delle orecchie lunghe e molli, come avesse portato gli orecchini tutto il tempo, solo che era un uomo. E sinceramente non ricordo se gli facesse piacere mettersi in posa per una piccola decenne con la coda di cavallo, ma mi viene da dire che la maggior parte dei vecchietti non ce l’ha una bambina che gli faccia un ritratto, e se non altro lui, nella sua vita, avrà avuto anche questo: la sorpresa di conoscere una maestra un po’ matta, che di raccontare la vita di Gesù non ne aveva proprio voglia e preferiva trascinare i suoi bambini in un atelier improvvisato. Che per me non era triste. Era un pezzo di vita, e come tale era bello. Certe volte, ai bambini, basterebbe insegnargli questo.

Non è mai facile raccontare cosa ti lascia una persona. Cosa ti dona, cosa ti toglie, in cosa ti cambia. Non ne siamo neppure consapevoli del tutto. Ma so che le ragazze hanno “la pelle di pesca” per merito di Luisa, e sempre per colpa di Luisa certa gente “ha le mani grandi come pale da fornaio”, l’acqua ha un suono “argentino” e l’autunno è un pittore. Quando arriva la primavera gli alberi si vestono a festa, e quando arriva l’inverno da qualche parte c’è una foglia, di nome Bandiera, che lotta contro il destino perché ama troppo la vita. Non potrò mai usare un vezzeggiativo senza temere la penna rossa di Luisa, che lo segnerebbe errore perché non c’è bisogno di ridurre tutto in –ino e in –ina, e il complemento oggetto sarà sempre e irrimediabilmente incarnato da quella frase, quella indelebile frase, di Luisa che mangia la mela. Ed è colpa sua se un antico roseto può raccontare una storia, se il suono della moka assomiglia a una musica e se ogni cosa ha un profumo, un sapore, una luce. Ancora adesso esco di casa al mattino e ho la voce di un narratore nella testa: registra ogni piega e ogni ruga del mondo, e scopre un potenziale incipit di romanzo ad ogni angolo di strada e in ogni sguardo rubato. È il mondo parlante che mi ha indicato Luisa. È il mondo in cui la scuola ha un cuscilibro, dove maestre e bambini leggono insieme l’avventura più bella.

Buona Festa della Donna a tutte!

venerdì 7 marzo 2014

Le donne che saremo #5

...continua:



Le distoglie un suono allegro, uno squillo da lontano:
è il computer di Silvietta (ce l’ha sempre sotto mano
per cercare tutte insieme qualche foto da scambiare)
che le avvisa che qualcuno sta tentando di chiamare… 
È Adriana, che sorpresa! Ci contatta con la rete!”
“Ciao ragazze! Cosa fate? Banchettate? Quante siete!”
Tecnologiche e ingegnose, anche se sono distanti
hanno fatto diventare le distanze irrilevanti:
non importa quanto passa tra Belgrado e la Romagna,
ma l’amica farmacista, a suo modo, le accompagna
e ogni volta che ne han voglia si rimettono in contatto.
Un microfono, una webcam, un pc ed il gioco è fatto!
Con quegli occhi grandi e neri, la risata contagiosa
e la voce spensierata Adri è sempre strepitosa,
proprio come quando Silvia l’ha incontrata in facoltà
e ha intuito che non era semplice casualità.
Il destino, che burlone, con saggezza e fantasia
quando vuole sa avverare anche ciò che era utopia;
muove i fili di una vita, li riavvolge ed aggroviglia,
prende ciò che era sicuro e lo cambia in meraviglia,
e fa nascere un quesito misterioso ed attraente:
“Se quel giorno avessi fatto una scelta differente,
la mia strada avrebbe preso un’inclinazione opposta?”
non c’è niente di più bello del cercare la risposta
ma capire che alla fine, in qualunque direzione,
è impossibile scoprire una vera soluzione…
con un po’ di batticuore resta un interrogativo:
“se ci siamo conosciuti, ci dev’essere un motivo”.
Se la sorte avesse scelto altri luoghi e altre persone
le otto amiche questa sera non avrebbero occasione
di sentire questa voce, così affabile e vitale,
dire: “Voglio che veniate a trovarmi per Natale!
Che ne dite di un viaggetto in un posto tutto nuovo?
Questa volta la mia casa sarà il punto di ritrovo!”
Entusiasmo, commozione, qualche chiacchiera volante
e salutano Adriana in un coro scoppiettante. 
Ripensando alla proposta, già decise ad accettare,
le ragazze, a poco a poco, si son messe a sparecchiare,
ma per completar la cena con un tenero finale
c’è un dolcetto assai invitante dal profumo un po’ speciale:
è di Elisa la ricetta dei bon bon cioccolatosi
che dai tempi della scuola stuzzicavano i golosi,
e di nuovo questa sera le palline incriminate
sono pronte sulla tavola a tentare le invitate.
“Attenzione mie compari, la ricetta è differente!
Questa volta, dopo anni, ho cambiato un ingrediente,
non a caso, state certe, ma con tanti tentativi
che all’inizio han dato anche risultati più cattivi…
il mio primo esperimento era a scopo sanitario:
mi era stato domandato da un cliente miliardario
di inventare una pralina dal sapore stuzzicante
che facesse ritornare la memoria più brillante.
Una prova, una seconda, ma non c’era proprio verso
di poter risuscitare il ricordo andato perso.
Stavo quasi per mollare, ma assaggiando un mio dolcetto
ho capito che faceva un simpatico altro effetto:
non ridava la memoria ai vecchietti smemorati,
ma gettava nuova luce sui ricordi un po’ annebbiati.
Spiego meglio: se una cosa la ricordi malamente,
e hai dei dubbi sui dettagli, sulle facce della gente,
sgranocchiando una pallina tutti i particolari,
soprattutto se superflui, torneranno forti e chiari!

A che serve ricordare ciò che è inutile e sottile?
Che domande, serve eccome! Fa la vita più gentile!
Cosa c’è di più importante dei dettagli, veramente?
del rossore su una guancia, delle voci della gente,
della luce che si insinua da una tenda piano piano,
delle fusa del tuo gatto accoccolato sul divano,
della piega un po’ speciale su una bocca col sorriso,
di un tramonto color oro e un mattino fiordaliso?”
Non aspettano un istante ed assaggiano i dolcetti
impazienti che i ricordi ridiventino perfetti…
detto fatto: basta poco, e riaprono le danze
tra racconti divertenti, episodi di vacanze,
vecchi gossip che qualcuna s’era già dimenticata,
primi baci, prime uscite e anche qualche litigata. 
“Un momento - fa Eleonora – non sarebbe niente male
se prendessi qualche appunto… avrei tanto materiale
per buttare giù una storia, o una filastrocca almeno,

che negli anni, quando serve, dia una mano a fare il pieno
di parole e facce amiche, e ci aiuti a ricordare
che crescendo non dobbiamo aver paura di cambiare.”
Cantastorie per diletto, pare che abbia mantenuto
la promessa e che quel testo non sia andato più perduto,
così come non si è persa l’amicizia che le lega.
L’amicizia, che fatica… è un illuso chi lo nega!
Ma il vantaggio d’affrontare tutte insieme un’avventura
sta nel mettere in comune il coraggio e la paura…
E le storie schiette e vere delle semplici persone
son più belle delle fiabe, tutte miele e perfezione.
The end (si fa per dire) 

giovedì 6 marzo 2014

Le donne che saremo #4

...continua: 




Son d’accordo pienamente -fa Alessandra d’improvviso-
ci son cose che a quest’ora mi risvegliano il sorriso,
ma a suo tempo, mi ricordo, non ridevo neanche un po’:
dopo la maturità mi son detta - bene, e mo’?-
Ero incerta sul da farsi, indecisa su chi ero,
mi chiedevo se la laurea la volessi per davvero
e per qualche mese strano ho pensato a Farmacia,
illudendomi che quella diventasse la mia via.
Ma con quel che avevo dentro, che c’entrava quella scelta?
Gli alambicchi e le provette li ho lasciati svelta svelta
e ho deciso di dar voce a com’ero veramente,
anche a costo di remare per un po’ controcorrente.
Risultato, dopo anni? Ho un micione dolce e bello,
un amore strepitoso e anche un po’ litigarello,
una moto con un rombo che mi sa togliere il fiato
con cui viaggio per il mondo come ho sempre sognato.
Chi l’ha detto che per essere felici c’è uno schema?
se ne fossi stata schiava sarei stata proprio scema!
Delle mie grandi passioni, del mio gatto tondo tondo,
delle amiche… non c’è niente che sia meglio in tutto il mondo!’ 
È da questo bel pensiero che traiamo ispirazione
per alzare tutte i calici e inventare un’intenzione:
“Un cin cin per i successi che sapremo conquistare,
e che queste rimpatriate non diventino mai rare!”
 
A proposito fanciulle - Marghe attira l’attenzione -
se vogliamo rivederci ho già in mente l’occasione.
Si dà il caso che tra poco, nel teatro comunale,
vada in scena un grande evento di portata culturale:
è un concorso destinato ad artisti e ballerine,
e partecipo anche io con le mie venti bambine…
quelle piccole furfanti che ho allenato in questi mesi:
faticoso, questo è vero, ma son stati bene spesi!
Il soggetto del concorso – attenzione – è il Paradiso:
quando l’han comunicato vi confesso che ho sorriso,
mi pareva complicato presentare l’argomento
ma poi ho cambiato idea e ho sposato l’alto intento.
Mi son chiesta come fare per danzare degnamente,
e riuscire a presentare il Paradiso con il niente.
Ho trovato! Mi son detta: per danzare la bellezza
non è il caso di cercare chissà quale sottigliezza,
basterà che la mia danza sia vivace, sorprendente,
che non sia un misero assolo ma una folla sorridente,
che sia un inno all’amicizia e riguardi le persone,
che coinvolga la platea, che contagi il più musone,
che si ispiri ai movimenti più spontanei della gioia…
perché anche in Paradiso, senza amici, sai che noia?
Ecco insomma amiche mie… promettete che verrete?
Ciò che conta più per me è il coraggio che darete.’
Continua...