Chi si chiede cosa si fa qui si rassereni: esattamente non lo sa nessuno.
Io ci metto qualche parola e qualche foto.
Con un'unica regola: solo finché mi fa felice.

giovedì 19 novembre 2015

Il giorno dopo la guerra

La sera di venerdì 13 novembre 2015 un attentato terroristico ha sconvolto Parigi, l'Europa e il mondo. Troppo ci sarebbe da dire e troppo è già stato detto, a volte perdendo occasioni preziose per ascoltare il silenzio. Una poesia non può molto, ma anche questa pagina così piccola e insignificante è occasione per dire che il male non deve vincere, e che tutti, in realtà, siamo Uno.


Il giorno dopo la guerra
il sole comunque sale.
Chissà se gli fanno male
quei corpi gelati a terra.
Si schiudono le persiane
su strade sgomente, mute.
Che siamo già in paradiso?
Negli occhi, segreto immane
da prede sopravvissute
silente ma condiviso.
Mi dici cos’è la vita?
Mi dici cos’è ordinario?
Ha senso essere in orario,
ha senso fare una gita,
ha senso volere un figlio
in tutto questo casino?
Mi dici se c’è un appiglio?
Mi dici cos’è il destino?

Facciamo l’amore più forte
buttiamo la spazzatura
buttiamo tutto il ciarpame
parliamo più della morte
freghiamola la paura
saziamo la nostra fame.
Il giorno dopo le grida
vediamole le occasioni,
cogliamola questa sfida
perché è proprio da coglioni
vestire la vita a lutto
se invece avevamo tutto.

(E ora anziché twittarlo
sarebbe opportuno farlo.)

sabato 31 ottobre 2015

Per certi fiumi non esiste diga


Mi piace a volte fare degli elenchi,
mi sembrano così rassicuranti,
mi aiutano a raccogliere le cose.
Riordinano i giorni più sbilenchi,
è come se facessero da guanti
per non beccare spine tra le rose.
L’elenco degli impegni in calendario,
l’elenco dei progetti che ho in cantiere,
l’elenco dei miei pregi e dei difetti…
Mi piace fare come l’inventario:
le cose poi mi sembrano più vere
se sono definiti dei paletti,
se tutto resta sotto il mio controllo,
se posso misurare dei progressi.
Fortuna che però c’è il terremoto.
Stupiti e spaventati dopo il crollo
capiamo che eravamo proprio fessi
a illuderci che tutto fosse noto,
a mettere la vita su una riga
come una lista fredda di obiettivi,
perché non si misura la realtà.
Per certi fiumi non esiste diga.
Ne ha tre di dimensioni ciò che vivi
e molto se ne sta in profondità.

venerdì 16 ottobre 2015

L'autunno



L’autunno ha un suo ché di glorioso
come un vecchio che senza rimpianti
si prepara a un addio luminoso
e non teme che cosa ha davanti,
perché sa che la vita è un intero
fatto anche di limiti e quiete.
Non ha dubbi, ha vissuto davvero,
ha ascoltato ogni giorno la sete
che da dentro premeva e diceva
che siam fatti per cose migliori
di successo, denaro, carriera.
E l’autunno ha infiniti sapori
ma li deve alla sua primavera.
Preferisco che il freddo e la morte
non ci siano nemici giurati:
che sia dolce accettare la sorte,
che sia bello saperci arrivati
a quel mare per cui scorrevamo.
E l’autunno ci ha sempre salvati
suggerendo il prodigio che siamo.

martedì 13 ottobre 2015

Tutto sarebbe per noi

Ho notato che accade una cosa strana. Provassimo a fare un’intervista così, passeggiando per strada, fermando gente a caso nella mattina di mercato, magari interrompendo le chiacchiere tra un gruppetto di amici; provassimo a fare un’intervista, dicevo, e chiedessimo un parere sui cellulari e i social network, insomma, sulle famigerate nuove tecnologie, mi sento di scommettere che la maggior parte degli interpellati ne direbbe peste e corna. Giovani, vecchi, finti-giovani o anziani precoci: tutti, ma proprio tutti, sciorinerebbero da copione le atroci conseguenze che gli smartphone hanno portato nelle nostre vite, riducendole non più a vere vite, ma a banali “esistenze”, secondo una contrapposizione che va tanto di moda. E la gente che cammina sui marciapiede a testa bassa. E non ci si dice neanche più buongiorno facendo la fila alle poste. E questi cellulari sempre appoggiati sul tavolo mentre si mangia, e prima di andare a letto non si legge più un buon libro ma si controlla whatsapp. Non si guardano più i tramonti, non si annusa più il profumo della primavera, la domenica non si fa più la gita in campagna e non si conoscono più le costellazioni. Non c’è bisogno di essere vecchi bacucchi: persino gli adolescenti lo dicono chiaro e tondo, o almeno lo scrivono nei temi. “Il cellulare mi ruba troppo tempo e energie. Controllo ossessivamente i ‘mi piace’ e i commenti su fb. A volte penso che fosse meglio una volta, quando l’essere contava più dell’apparire e la vita vera era più importante di quella virtuale.” Favoleggiano di qualcosa che non hanno mai conosciuto, perché di fatto, i giovincelli in questione, sono nati che l’I-phone già stregava le folle, e forse non sanno di essere stati buoni buoni appisolati nella carrozzina, mentre la loro mamma faceva la fila all’Apple Store. Da qualche parte le avranno sentite, queste storie sul mondo “di prima”, quando si viveva davvero e le persone avevano rapporti autentici, fatti di carne e di pelle e di ossa. Ad ogni modo, manco glielo avessero tatuato addosso, il cellulare ce l’hanno comunque sempre in mano, alla faccia di tutti i discorsi sull’Arcadia pre-tecnologica e sulle amenità della vita dis-connessa. E per gli adulti è lo stesso. Ogni tanto, scorrendo la bacheca di facebook – che forse ora si chiama ‘diario’? – incappiamo in un articolo che fa al caso nostro: il tale artista, quotatissimo a New York, ha giusto giusto realizzato un video strappalacrime sull’inaridirsi delle relazioni familiari, totalmente guastate dalla dipendenza da cellulare. Clicchiamo il link, ci ciucciamo tutto il video, e finisce che ci sentiamo terribilmente in colpa per quella volta che anziché chiacchierare con la nonna sulla Seconda Guerra Mondiale abbiamo mandato una mail di troppo, o per quell’altra che anziché fare una dichiarazione d’amore davanti a un cielo mozzafiato ci siamo messi in posa e ci siamo fatti un selfie, o per quella mattina in cui abbiamo consultato il meteo con l’apposita app anziché spalancare le finestre sul mondo e ascoltare gli uccellini ammirando l’alba. Ci sentiamo anche un po’ incazzati, perché noi non ci stiamo, non va bene che la tecnologia ci inebetisca così. Peccato che il nostro bel video-denuncia ce lo siamo guardato tutto comodamente appostati sulla tazza del water, oppure in autobus pigiati in un recinto di ascelle, o magari nel parcheggio dell’azienda per ammazzare gli ultimi minuti liberi prima di lavorare, ovviamente sullo schermo formato cartolina del nostro bell’aggeggino tuttofare. E peccato che il regista del video, così critico e lucido di fronte alla nostra corsa al futuro, il suo video l’abbia pubblicato in rete e non l’abbia certo diffuso coi piccioni viaggiatori. Quindi nulla, siccome ci è piaciuto tanto, non ci resta che condividerlo, perché tutti quelli che amiamo, coi loro dolci cellulari, possano vedere che merde stiamo diventando proprio grazie ai cellulari.
Non è la prima volta che succede. È un po’ di tempo che i pacchetti di sigarette ospitano scritte allarmanti sugli effetti del fumo, ma il cliente sorride facendo un salto dal tabacchino, e il tabaccaio sorride quando gli porge le Marlboro. Nel caso non sorridesse, sarebbe certamente perché è un tipo un po’ timido, o perché quel giorno non gliene va dritta una. Nel peggiore dei casi non sorriderà perché è un tabaccaio maleducato, questo qui che ci passa le sigarette, ma non certo perché il suo prodotto provoca il cancro “a te e a chi ti sta intorno”. Insomma, perdonate il paragone azzardato, ma dire che il cellulare ammazza le relazioni umane non è un po’ come dire che le sigarette provocano il cancro? Che a ben pensarci, sapete, non è proprio proprio così, perché non avendo le sigarette una benché minima capacità di intendere né di volere, va da sé che di colpa, loro, non ne hanno proprio nessuna, e non “provocano” proprio un bel niente.
Insomma, mi chiedo se lo smartphone sia così responsabile. Io, da adolescente, lo smartphone non lo avevo. Mi sembra di aver vissuto un’infanzia e un’adolescenza sane, normali, ma ero pur sempre un’adolescente: un po’ sbruffoncella, lunatica, con la tendenza a ritirarmi in camera appena potevo, bramosa di solitudine e silenzio o di musica di dubbio gusto, quasi sempre impeccabile nel rispondere “niente” all’immortale domanda “cos’hai fatto oggi a scuola?”. Non faceva tanta differenza, che io non avessi lo smartphone. Di “sciocchezze” con cui annientarmi il cervello ne avevo comunque a bizzeffe. La televisione e le avventure di Dawson e Joey. Le interminabili telefonate con le mie amiche, rigorosamente da telefono fisso a telefono fisso, usate a parlare per ore – ma ORE veramente – di quel tipo di terza media che finalmente mi aveva guardata con la coda dell’occhio. I cd dei Backstreet Boys, da imparare tutti a memoria. Il mio record personale di Snake da battere sul Nokia 3210. La lettura di Cioè. E va bene, non sbrodolavo sui social qualunque cosa facessi. Non mi scattavo foto da sola per poi ritoccarle e trasformarmi in un incrocio inquietante tra una prostituta-bambina e una diva da passerelle. Però la differenza non l’ha fatta lo smartphone. La differenza l’ha fatta il dettaglio più semplice: che avevo mia sorella per giocare, mia mamma che preparava la merenda, e mio babbo che mi raccontava le storie di paura. E lo facciamo ancora adesso, nonostante in casa ne girino, di smartphone e di I-pad.
Io penso questo. Penso che a volte incolpare un oggetto sia tanto più comodo e rassicurante che rendersi conto di cosa stiamo creando. E se spegnessimo tutti gli smartphone, adesso, mettendoci tutti d’accordo, facendo finta che la tecnologia non esista, siamo proprio sicuri che ricominceremmo a ammirare i tramonti, a annusare i fiori, a chiederci “come stai?” e a guardarci negli occhi? Ci interesserebbero il sole, gli uccelli, la musica, il vento, le nostre paure, la ricerca di un senso, il pane fatto in casa, l’orto sul balcone, le lunghe chiacchierate davanti a un tè caldo, la pioggia sulla pelle, le corse sulla spiaggia, la luce dell’alba, le lucciole, le foglie in autunno, la voce del mare, la voce dei vecchi, la voce dei cuori? Ci interesserebbero tutte queste cose? Sì? E allora non c’è niente che ostacoli il nostro prenderle adesso.
Mi sembra un po’ una presa per i fondelli, ecco, tutto questo alzare la voce contro i social e il resto. Come spesso succede, da sempre, mi sembra l’ennesimo tranello per farci fare “spallucce”, rassegnati all’idea che il mondo cambia alla velocità della luce, e la società cambia, e che ci vuoi fare, ormai siamo fatti così. Però di vecchi maleducati e meschini, lo giuro, io ne ho conosciuti, di quelli che non salutano mai, e che nella vita hanno vissuto ben poco. Non li ha rovinati la Apple, non l’hanno neanche mai conosciuta. E insomma tutto questo per dire, così, proprio tanto umilmente e con garbo, che se proprio ci sentiamo schiavi di qualcosa, quel qualcosa non è certo un palmare. Ripensassimo ai nostri desideri, quelli veri, nascosti per bene. A quel punto non avremmo più limiti: tutto sarebbe per noi, tutto quanto a nostro favore. Anche smartphone e compagnia bella.

lunedì 28 settembre 2015

Qualcuno dovrebbe dirglielo

Cielo vero, così com'è. Unico filtro: le nuvole.
Qualcuno dovrebbe dirglielo, forse, a queste povere creature che sono gli uomini, che il loro bello sta nell’essere difettosi; che sono fragili al punto che adesso ci sono, respirano, benché nemmeno lo sappiano, ma tra un istante piccolissimo – insignificante al cospetto di tutti gli altri infiniti istanti del mondo – tra un istante piccolissimo potrebbero, ecco, non esserci più. E le foglie non smetterebbero per questo di ingiallire, e le maree di dondolare, né la luna di nascondere una faccia e la pioggia di formare delle pozze dove i bimbi ignari possano giocare, pestando nuvole e azzurri e case a testa in giù. Qualcuno dovrebbe dirglielo, forse, a questi ingrati contenitori di infinito, che non gli è richiesto, non gli è proprio richiesto, di essere Dio: che possono impallidire e ritirarsi un po’, costellarsi di macchie col procedere degli anni, corrugare la fronte e avere il collo cadente. Possono, loro, fare come il sole tutti i giorni, fare come le rondini e i leoni, fare come i meli e gli ippocastani: possono, gli uomini, ma forse non lo sanno, scaturire sulla Terra e poi esistere, o vivere, e alla fine tramontare. E ci sarebbe tanta poesia in questa parabola, tanto amore e tanta perfezione, se solo non passassero i minuti a rincorrere l’invincibilità. A nascondere le rughe, a nascondere le occhiaie, a nascondere la pancia e la pazzia, a annunciare che sono ancora felici, che fanno ancora l’amore, che non hanno paura, che è stato terribile, sì, ma l’hanno superato bene e no, non ci pensano più, non ci pensano proprio più, non piangono mai nel buio della loro stanza, non hanno mai la sensazione di morire. Potrebbero dirlo, gli uomini, che hanno sbagliato parecchio, che sbaglieranno ancora, che non sanno voler bene più di tanto, che non sono mai all’altezza del modello che nei secoli si sono disegnati, che ogni gioia si accompagna a una fatica, che l’amore fa anche male e che anche ieri, proprio ieri che nessuno li vedeva, chiaramente hanno pensato di non farcela. Che gli mancano la mamma e il babbo o i figli, che gli manca una parola che sia adatta a non fare andare via quelli che amano. Qualcuno dovrebbe prenderli sulle ginocchia, questi folli custodi del tutto, e dirgli che sono stati bravissimi, veramente, ad andare sulla Luna e a curare il vaiolo, a costruire apparecchi per parlare oltre gli oceani e le montagne, a concepire diete e tagli di capelli, sono stati bravi, commoventi, e si sono meritati di fermarsi. Che sarebbe molto meglio confessarsi: e va bene, qualche volta piango anch’io. Ho gli attacchi di panico ogni giorno. Ho mentito quando ho detto che volevo diventare un ingegnere, un astronauta, un cantante o un pizzaiolo. E va bene, ok, non me ne frega niente: voglio solo che mi vogliano un po’ bene.
E qualcuno glielo dica, con il cuore, che davvero non si sforzino a esser Dio. Che nel loro zoppicare e un po’ morire, sono già quello che a Dio va più vicino

giovedì 17 settembre 2015

Non saresti tu


E niente, volevo dirti
che forse la vita è questa.
Adesso io sono pronta,
adesso posso capirti,
nell’anima ci ho una festa.
Adesso so cosa conta:
capire che non sei mio.
Si può contenere il mare?
Potresti fare di più
(potrei farlo pure io)
però non me ne parlare:
che poi non saresti tu.

mercoledì 16 settembre 2015

Il primo giorno a scuola

Il primo giorno a scuola:
un innamoramento.
Schiarirsi un po' la gola,
nascondere il fermento...
Mi chiameranno strega,
però chi se ne frega.
Lo so che sarà dura,
che a volte ci odieremo,
che spesso avrò paura,
che arriverò allo stremo:
da sempre amore e morte
son nella stessa sorte.
Innamorarsi è uguale.
Condanna dolce amara,
lo so che farà male
ma che non sarà avara.
Da quando ci guardiamo
non "sono" più ma "siamo".

domenica 6 settembre 2015

Settembre


Settembre, se fosse un momento,
sarebbe le sei del mattino
perché custodisce un intento,
ha l’animo ancora bambino,
e se fosse un pasto, di certo,
sarebbe la mia colazione:
un nuovo barattolo aperto,
le fette, del tè col limone,
e fuori la strada rivive.
Che razza di giorno ci attende?
Settembre e le sue aspettative.
Un popolo che non si arrende.
Settembre è la strofa iniziale,
l’attacco, l’esordio, la nota,
lo sparo, la marcia nuziale.
Non c’è cuore che non si scuota.
Il buio che c’era c’è ancora,
ma non ha più il nostro controllo:
siam fatti per altro. L’aurora.
Lo schiudersi. L’alba. Il decollo.

sabato 5 settembre 2015

Da grande voleva fare la scrittrice


Da grande voleva fare la scrittrice, e quel giorno le avevano regalato un quaderno nuovo, ancora da cominciare. Doveva essere piuttosto vecchio, a dire il vero, perché il nonno lo aveva trovato nel capanno degli attrezzi tra la legna, le cartacce e le altre cose da bruciare: aveva le pagine ingiallite e la copertina macchiata, ma di un cartone grosso che – ne era certa – non l’avrebbe delusa, e avrebbe custodito qualche buona storia. Da grande voleva fare la scrittrice. Era così da sempre, perché scriveva anche quando pensava: le cose diventavano più vere dopo averle scritte, quasi sempre più belle, e non c’era nulla che non fosse degno di una pagina scritta. O di una pagina mentale, non faceva differenza. Una volta sua madre le aveva detto che era “una creatura di parole”. A detta sua c’erano persone capaci di catturare con gli occhi ogni più piccolo dettaglio della realtà, e che s’innamoravano del mondo attraverso lo sguardo, ma altre, quelle come lei, si sarebbero sempre fatte incantare dal suono delle cose e avrebbero lasciato le immagini in secondo piano, in un luogo più sfocato che contava tutto sommato poco, davvero poco, rispetto alla musica delle parole.
Le era piaciuto soprattutto essere definita “una creatura”. Da quel giorno si era sentita unica, diversa da ogni altro essere umano. Giocava ad essere l’abitante di un pianeta lontano, o una fata venuta dai boschi, magari capace di parlare con gli animali o di intendersela con le nuvole. Era un gioco che faceva da sola, di cui nessuno sapeva, ma aggiungeva un tale mistero alle sue giornate che credeva non vi avrebbe rinunciato mai più. E forse, prima o poi, si sarebbe davvero scoperta una creatura speciale.

Quel giorno teneva il suo quaderno nuovo aperto sul tavolo di legno, sotto la veranda, ma in realtà si distraeva spesso a guardare i girini nel barattolo di vetro. Lei e sua cugina lo avevano ripulito dalla marmellata di more, il barattolo, e lo avevano usato per catturare i girini dal ruscello dietro casa, standosene sedute sull’asse di un vecchio armadio, incastrata a mo’ di ponte tra le rive. In quei momenti si sentivano come i maschi, i figli del contadino, però sapevano di essere più mature di loro: qualcuno doveva avergli messo dentro una consapevolezza strana, alle donne, o un filo legato a qualche stella dispersa nello spazio. Già lo sapevano, e il fatto che i maschi non sospettassero nulla le faceva sentire complici e libere, felici come chi ha tutto da conquistare.

Avrebbe potuto scrivere la storia di quei girini, che le sembravano macchie d’inchiostro. Magari uno della cucciolata avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di inusuale, mentre gli altri diventavano diligentemente ranocchi: uno solo, diverso da tutti gli altri, forse un po’ magico o solo un po’ sfortunato, si sarebbe evoluto in un pesce o in una sirena, in un uccello nuotatore o in una libellula d’acqua. Gli altri ci sarebbero rimasti male, ne era sicura, e vuoi per ottusità, vuoi per una punta d’invidia, all’inizio lo avrebbero escluso dalla famiglia e lo avrebbero accusato di essere un egocentrico o un pazzo, un pericolo per l’ordine sociale dei girini in un tranquillo barattolo di marmellata. Cercò di dare un nome ai girini, ma non era facile capire quali fossero maschi e quali femmine, e tendevano a mischiarsi di continuo facendole perdere il segno.

Lei si chiamava Greta, ed era un nome che le piaceva. Le pareva un po’ antico, un po’ selvatico e un po’ raffinato. O forse selvatica era solo lei, con quei capelli né ricci né lisci che sembravano sempre appena usciti dal mare, e gli occhi neri come le olive della Sicilia, che aveva raccolto quell’estate di alcuni anni prima. Se c’era qualcosa che la incantava era il fatto che gli alberi dessero frutti commestibili per gli esseri umani. Insomma, non ne sapeva ancora molto di scienze o di biologia, e tantomeno di anatomia, ma sospettava che il corpo fosse una macchina sofisticata, e che nutrirla non fosse proprio una cosa da nulla. Alle piante non glielo aveva detto nessuno – o forse sì – di modellare dei bocconcini con quei sapori e quegli ingredienti, eppure loro erano capaci di inventarsi dei frutti commestibili. Lei ad esempio, se dal nulla avesse voluto creare un’oliva, non avrebbe saputo proprio dove mettere le mani.

Nemmeno la nonna, probabilmente, avrebbe saputo fare un’oliva. E dire che lei era una strega in cucina: lavorava in calderoni di ferro così vecchi da essersi deformati, e ciotole di ceramica consumate dal fuoco. Greta le chiedeva spesso di regalargliene qualcuna, per giocare al ristorante o raccoglierci la terra e costruire un castello, ma la cuoca diceva che gli oggetti hanno un’anima, e una pentola anziana ha già molta esperienza, ed è un’aiutante così perfetta che sarebbe un peccato sbarazzarsene proprio all’apice della sua carriera. Almeno si lasciava aiutare dalla nipote, e le insegnava quei trucchi che nei libri di ricette non dicono mai. La pastella per le zucchine fritte veniva bene con la farina gialla e la birra ghiacciata, e l’insalata si conservava per giorni avvolta in un panno di tela e nascosta in un sacchetto. La carruba aveva il sapore del cioccolato e ci si preparavano frappé squisiti, lo zucchero di canna faceva i biscotti più croccanti e le banane schiacciate rimpiazzavano bene le uova nella ciambella, e la facevano profumare d’estate. Le dava anche qualche lezione di vita, impastando e assaggiando, e Greta la prendeva in giro e rideva, faceva finta che non le importasse. Invece l’ascoltava alla grande, e in fondo lo sapevano entrambe. Due cose non avrebbe mai dimenticato, perché la nonna gliele aveva dette con la voce dei grandi segreti. La prima era che tutto ciò che fai, se lo ami, diventa bello. Come se fosse una questione di scelta. La nonna la vedeva sudare sui compiti di aritmetica e le diceva “Ama l’aritmetica! Amala anche se non ti piace, altrimenti non ti riuscirà mai!”, e con le torte era lo stesso, le trattava come fossero bambine da accudire, e più sembravano bruciacchiate e più le coccolava, ci parlava, faceva in modo che alla fine venissero belle e buone lo stesso. La seconda cosa era che la verità, nei manuali, non viene mai svelata del tutto. Come nei ricettari, era così per ogni aspetto del mondo: meglio diffidare delle istruzioni precise, delle regole ferree e delle etichette indelebili. “Mi stai dicendo che devo essere disubbidiente?” le aveva chiesto con gli occhi furbi, e la nonna aveva riso forte: “Neanche per sogno! Non direi mai niente del genere!” Ma le aveva strizzato l’occhio e avevano riso insieme per un bel po’, mentre passavano l’aglio sulle bruschette, e se qualcuno fosse passato di lì in quel momento avrebbe avuto la sensazione che fossero proprio matte e contente, quelle due. 

domenica 30 agosto 2015

Quando vai a scuola credi che per i prof sia diverso


Quando vai a scuola credi che per i prof sia diverso. Pensi che non si annoino mai in classe; che non vorrebbero mai essere altrove. Pensi che l’analisi del periodo sia davvero, per loro, una questione di vita o di morte, e non sospetti che si distraggano a lezione. Non sai che vorrebbero controllare il cellulare in borsa perché l’hanno sentito vibrare, o che non vedono l’ora di fare merenda. Immagini che non dicano parolacce, e che nel pomeriggio non si concedano mai di bivaccare in pigiama sul divano, magari sgranocchiando un pacco intero di biscotti. Spesso arrivi a pensare che i professori, nel pomeriggio, semplicemente non esistano. E invece per i prof è la stessa cosa: aspettano anche loro l’ultima ora del sabato con un’euforia crescente dentro il petto, e l’inizio delle vacanze estive è anche per loro un miracolo, che esplode con la campanella più attesa di inizio giugno. Quando ero piccola già lo sapevo: la mia idea di felicità assomigliava a quel fiume in piena che dalle classi straripava giù per le scale, e poi in cortile, l’ultimo giorno di scuola.
Il 30 giugno 2015 ho concluso il mio secondo esame di terza media. Il primo risaliva a quindici anni fa, quando avevo l’apparecchio ai denti: appena finito ero andata a festeggiare in piscina, con la mia classe e un fidanzatino che avrei lasciato via sms due giorni dopo, dal mio nuovo Nokia 3210. Oggi ho 29 anni e a giugno 2015, ormai un paio di mesi fa, l’esame ha avuto un sapore nuovo, perché questa volta la prof ero io.
A interrogazioni finite ho provato sollievo: tutto era andato bene. Qualche discussione, qualche intoppo burocratico facilmente raddrizzabile, qualche valutazione forse più scarsa di quanto avremmo voluto… Però tutto bene. Ero stata credibile, come prof? Nella tracolla nera – quella che avevo comprato al Leonardo con mia mamma lo scorso agosto, preparandomi all’avventura – avevo un plico di fogli pieni di appunti: le date di storia che non mi ricordo mai neppure io, perché mica posso chiedere una data e poi dimenticarmela per prima; qualche citazione di personaggio letterario da presentare ai ragazzi, per poi sfidarli: “Chi pensi l’abbia scritta?”; qualche annotazione per evitare disastri. “Non chiedere il Risorgimento a Montroni”. “Collegamento con arte per Bertuzzi”. “Leopardi piace molto a Ferretti”. Cose così.
Non sono andata a festeggiare in piscina, benché l’estate lo chiedesse a gran voce. In lontananza il profilo di Imola e il tremolio dell’afa, come succede nel deserto, perché laggiù tra l’asfalto dovevano esserci più di trenta gradi. La scuola è su una collina: là è sempre un po’ più fresco che in centro. Qualche alito d’aria mi accarezzava, ma sarebbe bastato il verde degli alberi e del prato a darmi sollievo: quel verde e quel sollievo che ho apprezzato tante volte, nei dieci mesi precedenti, andando al lavoro la mattina. Imboccando la salita vedevo la scuola sulla cima, ancora mezza addormentata nella luce tenera delle 7.30, con le galline del contadino a tagliarmi la strada e qualche volta, con un po’ di fortuna, uno scoiattolo rapido che guizzava su per un tronco, come un’allegra scintilla rossiccia. Qualche volta avevo l’autoradio accesa, quando avevo voglia di giocare alla colonna sonora, quando mi andava di cantare anche se mi ero svegliata da poco, quando immaginavo di essere dentro un film e mi vedevo tutta la scena da fuori, con questa giovane prof inesperta che andava verso la sua giornata dentro una Lancia azzurrina. Altre volte desideravo il silenzio, ad esempio quando ero un po’ inquieta per una mattinata pesante in arrivo, oppure se ero particolarmente felice. Così felice che non serviva nient’altro.
E la musica non è servita, a fine giugno, a esami orali finiti, mentre tornavo a casa coi finestrini abbassati, finalmente libera da ogni incombenza scolastica. Libera di mettermi i jeans strappati. Libera di fare tardi un venerdì sera. Libera di andare dall’estetista e preparare la borsa del mare. Non è servita la musica perché era già forte nell’aria, potentissima nelle mie orecchie, così gloriosa e eccitante come solo le giornate memorabili sanno suonare: nel sole dell’estate risentivo quei “prof”, quelle voci squillanti, e forse solo lì mi sono davvero resa conto che in classe, quelle venti facce un po’ adulte e un po’ bimbe, non le avrei  proprio viste mai più. Chissà se si piange ogni volta. Immagino di sì.
E chissà l’estate dei ragazzi. Saranno andati in giro in bicicletta o saranno scappati al mare coi genitori, magari la sera avranno avuto il permesso di prendere un gelato fra amici. Crederanno di essersi lasciati alle spalle un’impresa epica e immagineranno la scuola nuova pieni di aspettative e di sogni, con quel misto di attrazione e timore che sempre proviamo per ciò che deve arrivare.
Ogni volta succede anche a me: la strada dell’insegnante è fatta di tante storie, di tanti inizi, di tanti addii e arrivederci. Spesso il 30 giugno significa vacanza ma anche disoccupazione, il che comporta una distesa eccitante e inquietante di mesi  liberi che si srotolano di fronte ai miei piedi, come un tappeto costellato di interrogativi, diretto non si sa dove. Fortunatamente non sono il tipo che si fa prendere dall’ansia – non più – e a fine giugno il mio tappeto lo immaginavo azzurro come un cielo pulito, vagamente profumato di salsedine e inondato di un sacco di sole. Tutto sommato non mi dispiace quando le cose finiscono, se me le sono gustate per bene. Che non significa senza ferite.
Soprattutto perché niente avrebbe inizio, se nulla finisse. Io oggi non avrei questa bella agenda vuota tra le mani, e questo settembre carico di promesse a tenermi sveglia la notte per l’impazienza. Che chi l’ha detto, poi, che ciò che è stato sia meglio di quello che sarà? Pronta a farmi travolgere e stupire dai piccoli grandi uomini che anche quest’anno, ancora una volta, incontrerò sulla mia strada.

giovedì 27 agosto 2015

Un gesto

Comprare un’agenda
ci ha dentro
l’odore di nuovo e di bianco.
Più è vuota
più è bella
e più è piena
perché ci risponde
a quel dubbio,
quel tarlo che è proprio da noi.
“Puoi esserlo”
dice l’agenda.
“Puoi essere quello che vuoi”.

venerdì 7 agosto 2015

A un amico gli vorresti regalare


A un amico gli vorresti regalare
Tutto quello che desidera e gli manca.
Lo vorresti riverire, coccolare…
Purché sia felice lasci carta bianca.

Cancellare qualche ruga dal suo viso,
regalargli quelle ferie meritate,
realizzargli la sua idea di paradiso,
suggerirgli il senso delle sue giornate.

Dopo un po’, quando un amico compie gli anni,
non hai voglia di comprare chissà cosa:
i pacchetti sono solo degli inganni,
come foto artificiose, tutte in posa.

A un amico gli vorresti regalare
quel regalo che non hai nemmeno te:
quella pace inquieta tipica del mare,
e un momento che gli sveli lui chi è.

Ma non credo che si possa, a dire il vero,
forse ognuno deve fare il suo cammino,
senza sconti, solamente prezzo intero.
Però sempre con un’anima vicino.

mercoledì 5 agosto 2015

Stasera facciamo un giro


Credo si debba dire ti voglio bene una volta al giorno
però in modo sempre nuovo, se no si perde il valore.
Puoi dire ti voglio bene sfornando patate al forno,
puoi dirlo con un sussurro, oppure con gran clamore.
A volte lo dici solo semplicemente aspettando un poco,
a volte l’attesa è lunga, ma è il prezzo dei sentimenti.
A volte lo dici quando ti prende in giro ma tu stai al gioco,
oppure c’è chi lo dice senza ostentarlo, stringendo i denti.

Ti voglio davvero bene… puoi dirlo con una torta,
puoi dirlo quando ti fermi dopo lavoro a fare la spesa,
puoi dirlo tenendo a bada quei nervosismi da luna storta,
oppure puoi innervosirti, ma poi ricercar l’intesa.
Puoi dirlo con un biglietto, e metterlo sul cuscino,
puoi dirlo dicendo “Basta, stasera facciamo un giro”,
puoi dirlo mettendo a posto il suo libro sul comodino,
puoi dirlo anche se non sente, perché dorme come un ghiro.

Fortuna c’è chi capisce, comunque noi lo diciamo.
A me c’è stata una volta, che mi ha fatto star da Dio:
siccome era quasi notte, io dolce gli ho detto “andiamo”.
Però deve aver frainteso, perché mi ha risposto “anch’io”.

giovedì 23 luglio 2015

Oggi luglio mi sembra Natale


Afa estiva, dei fiori, l’altare.
Le signore del borgo curiose.
I ventagli, le scarpe più ardite.
Qualche scatto comincia a volare.
Chi avrà scelto quei vasi di rose?
Anche all’ombra sudore a pepite.
Bottigliette dell’acqua appannate.
Gonne lunghe, leggere, pastello.
Qualche uomo si toglie la giacca.
Una paglia. Le nostre risate.
Manca lei solamente all’appello.
Allo sposo una stretta, una pacca.

Oggi luglio mi sembra Natale
perché è chiaro, si aspetta qualcosa.
Una strana euforia nell’attesa.
Non si sa cosa c’è di speciale,
perché non è nemmeno la sposa
che aspettiamo davanti alla chiesa.
E l’amore esisteva da tanto,
non è oggi il principio di tutto.
Non è neanche l’arrivo, la meta.
Non è fiaba, non è solo incanto.
Non tutela da quello che è brutto.
Però il riso. Gli scialli di seta.
Quest’attesa, la trepidazione.
Qualche cosa dev’esserci in ballo.

Guarda, ecco che arriva. Candore.
E si guardano ed è un’esplosione
sotto il sole vestito di giallo.
Che sia semplice, forse, l’amore?
Che sia tutto in quegli occhi infiniti?
E vabbé la cravatta ed il velo.
Ma quegli occhi ed il loro riflesso.
Storie vere. Gli abbracci. Le liti.
Qualche volta l’inferno, poi il cielo.
Che il per sempre sia fatto di adesso.

venerdì 17 luglio 2015

E' l'estate che vi parla


Abitanti del pianeta, è l’estate che vi parla.
L’anno scorso, lo sapete, mi son presa una vacanza:
ero stanca ed ho pensato fosse mio diritto farla,
ma vi siete lamentati della strana latitanza
e sembravo ricercata, ci mancava “Chi l’ha visto”
per concludere il quadretto degno di un’apocalisse.
Volevate andare al mare, trangugiare il fritto misto,
diventare tutti neri, soddisfare quelle fisse
che da sempre, con l’estate, sono date per scontate.

Finalmente son tornata, ma ho un’insolita impressione…
Correggetemi se sbaglio… anche qui vi lamentate?
Forse io farò i capricci, ma son buffe le persone.
Anziché sbuffare sempre e avanzar delle pretese
apprezzate la mia indole solare e assai caliente
perché non è mica eterna, dura giusto qualche mese.
Non lo sa cosa si perde chi non vive mai il presente.

lunedì 13 luglio 2015

Ho pensato che


Ho pensato che se noi eravamo in tre
- io, mia mamma ed Annalisa, la mia amica -
e ciascuna, nello zaino, lì con sé,
si portava un po’ di gioia e di fatica,
molte risa, qualche lacrima e un bel sogno,
tanti bei ricordi dentro la memoria,
molte debolezze (non me ne vergogno),
cicatrici – narratrici di una storia -
poi la voglia di saltare fino al sole,
chili e chili di pensieri e di speranze,
un archivio sconfinato di parole,
desideri annullatori di distanze,
più crateri, rughe e ombre della luna,
qualche delusione e piccoli successi,
una dose equa di sfighe e di fortuna,
e valanghe di passioni e di interessi…

Ho pensato - vi dicevo - che se è vero
che in tre appena portavamo tante cose,
figurarsi nello stadio tutto intero
che abbondanza di bellezze strepitose!
Pensa te se così in tanti si pensasse
a un pensiero grande e rivoluzionario.
Se poi subito non lo si abbandonasse…
Pensa te che potenziale straordinario.

Quanti cuori, teste, braccia, piedi e voci
che si sono con pazienza messi in fila.
I messaggi belli vanno più veloci
quando li si canta insieme in 30 mila,
e ho pensato “basterebbe tanto poco
per sentirci così belli e così vivi.”
Faccio un calcolo un po’ serio e un po’ per gioco:
30 mila e più persone coi panini,
scarpe comode e la voglia di ballare,
fanno in tutto 30 mila e più destini.
Mi emoziona, senti. Che ci posso fare?

venerdì 10 luglio 2015

E il cielo, quello esiste veramente?



E dicono che la magia non esista,
che esista solo quello che si vede.
Per caso un’emozione l’hai mai vista?
Esiste quel tuo battere col piede
guidato da dei fili inconsistenti,
che non li vedi mai però li senti?

Non ho mai visto il cuore di un bambino
ma credo ci stia dentro l’universo,
non ho mai visto il sole da vicino
eppure non ti guardo di traverso
se giuri che è più enorme della vita.
Non tutto puoi afferrarlo con le dita.

La musica ad esempio non si tocca,
e un libro sembrerebbe non parlare,
però non riesci a chiudere la bocca
perché qualcosa ti obbliga a cantare
e una parola scritta cambia il mondo:
un seme nero, piccolo e fecondo.

Non credo di aver mai visto l’amore,
non l’ho mangiato né tenuto in mano,
ma so che esiste, come esiste un fiore
anche se a prima vista è tutto grano,
perché diversamente non si spiega
qualcosa che ti libera e ti lega,
ti fa investire tutto ma non costa.

E il cielo, quello esiste veramente?
Esiste veramente una risposta?
Io so che la mia anima non mente
e che non cercherebbe così in fretta
qualcosa che non c’è e che non mi spetta.

giovedì 2 luglio 2015

Tane strane: vi invito per un caffé

Oggi ho deciso di fare una cosa diversa dal solito. In città più fantasiose della mia - dove l'arte non è considerata un capriccio per gli ingenui - può succedere di visitare la casa di un artista: la porta aperta, una musica invitante al posto dello zerbino "Benvenuti", qualche immagine bizzarra alle pareti o un intreccio di sculture lungo il corridoio, che devi stare attento a dove metti i piedi per non pestare qualcosa che un giorno potrebbe finire sui libri di scuola.

Insomma: complici il tempo libero e una macchinetta fotografica imperfetta ma dignitosa, ho deciso di aprire le porte di casa mia. Io non ci abito più, a dire il vero, ma è pur sempre casa Orsi. Piena di ricordi, piena di pezzi di me, piena in generale, ecco. Piena di tutto, lo vedrete.

Varcata la soglia eccoci qui, in una giornata di sole e di ordinaria confusione. Niente di che, come potete vedere.


Anche se, a ben guardare, si possono cogliere tenere tracce di vita. Tipo un fiore arancione in un bicchiere blu, o un augurio scritto di buona giornata.


C'è sempre qualcuno che accoglie gli ospiti, e non prendetevela per il broncio del bimbo: dev'essere ancora per quella volta che gli ho staccato la testa, e per non farmi scoprire dal capo l'ho nascosta sotto un cuscino. Ad ogni modo il capo (mia mamma) si sarebbe arrabbiato di più se avessi rotto la fanciulla più in basso, presumo. Perché quella l'ha fatta lei.



Ma accomodatevi un momento in cucina. Mentre prendo da bere guardatevi pure attorno e fate conoscenza con qualche foto, con l'orso bianco e con i sassi, con piatti che sembrano pizzi e altre fanciulle custodi di questa strana tana.






Se poi per una boccata d'aria ci spostiamo in balcone, ecco che ci troviamo in un buffo genere di giardino. Di fiori ce ne sono, e anche di foglie e di bacche. Ma a volte sono secchi, siccome vengono da lontano: c'è chi ha la mania di raccoglierli ovunque si trovi. Perché - dice - ogni venatura, ogni ruga e ogni bitorzolo che c'è in natura è bellissimo, se lo sappiamo guardare. A mia mamma, Anna Rita, tutto dà l'ispirazione per le ceramiche e le creazioni di filo di ferro, che stanno prendendo il sopravvento un po' ovunque.















Andiamo nella zona notte, dai. Prima passiamo dal corridoio, salutando il gatto alato firmato Elena. Poi entriamo nella mia camera da letto, che nell'ultimo anno è diventata una foresta di bozzetti e di sculture fatte di terra, di sassi, di ferro e di carta. Tra vecchi peluche, diari segreti della mia adolescenza, foto ricordo e portamatite è tutto in bilico e bisogna stare un po' attenti a muoversi, come ci fa notare un bel biglietto sulla scrivania. Per fortuna The Little Grey Rabbit controlla i visitatori.










Perché sul tavolo ci sono loro:








Per non parlare di cosa c'è sotto il tavolo! Basta chinarsi un momento, così:




Ma anche sugli scaffali, sul muro, e vicino allo specchio. E' un'invasione, ve lo avevo detto subito.








E poi ci sono io, che fotografo tutto. Non è che uno debba andare chissà dove, per vedere qualcosa di interessante.


La camera dei miei, forse, è il vero tempio dell'artista. Degli artisti, per la precisione, perché anche mio babbo se la cava piuttosto bene. Un po' Orso, ma poetico dentro.



Anche qui c'è un custode, e sembra pure un tipo solare.


Persino Gesù si è guadagnato un bel vestito di foglie e di fiori secchi, e se ne sta accanto all'omino di filo. Spero non se ne abbia a male, ma credo proprio di no.






In mezzo a tutta quest'arte, niente sembra impossibile. Le bambole si innamorano degli orsetti, le foglie sono come ricamate, e gli angeli portano le zebre al guinzaglio.




Entrando in camera di Elena, invece, bisogna passare sotto uno sguardo così:


Esatto, è molto brava con le matite. E' brava anche a lasciare tutto in disordine, ma poi va a finire che ci mette una chitarra in un angolo, uno specchio per terra, un cappello appeso a una molletta gigante e un uccellino sul muro, ed ecco che, per magia, ti sembra quasi fatto apposta. Per forza, dev'esserci un senso segreto nel caos. Altrimenti non so, dite che sarebbe così bello?






Bene miei cari, la visita è finita. Spero vi siate divertiti e abbiate voglia di tornare. Siamo piuttosto pieni, ma forse è proprio quando si è pieni che c'è posto per tutti. Portate chi volete, a presto! :)


PS: Alcune creazioni di Anna Rita sono visibili qui, mentre questo è il suo blog, dove trovate anche i suoi contatti. Questa, invece, è la sua pagina facebook.