Chi si chiede cosa si fa qui si rassereni: esattamente non lo sa nessuno.
Io ci metto qualche parola e qualche foto.
Con un'unica regola: solo finché mi fa felice.

lunedì 28 settembre 2015

Qualcuno dovrebbe dirglielo

Cielo vero, così com'è. Unico filtro: le nuvole.
Qualcuno dovrebbe dirglielo, forse, a queste povere creature che sono gli uomini, che il loro bello sta nell’essere difettosi; che sono fragili al punto che adesso ci sono, respirano, benché nemmeno lo sappiano, ma tra un istante piccolissimo – insignificante al cospetto di tutti gli altri infiniti istanti del mondo – tra un istante piccolissimo potrebbero, ecco, non esserci più. E le foglie non smetterebbero per questo di ingiallire, e le maree di dondolare, né la luna di nascondere una faccia e la pioggia di formare delle pozze dove i bimbi ignari possano giocare, pestando nuvole e azzurri e case a testa in giù. Qualcuno dovrebbe dirglielo, forse, a questi ingrati contenitori di infinito, che non gli è richiesto, non gli è proprio richiesto, di essere Dio: che possono impallidire e ritirarsi un po’, costellarsi di macchie col procedere degli anni, corrugare la fronte e avere il collo cadente. Possono, loro, fare come il sole tutti i giorni, fare come le rondini e i leoni, fare come i meli e gli ippocastani: possono, gli uomini, ma forse non lo sanno, scaturire sulla Terra e poi esistere, o vivere, e alla fine tramontare. E ci sarebbe tanta poesia in questa parabola, tanto amore e tanta perfezione, se solo non passassero i minuti a rincorrere l’invincibilità. A nascondere le rughe, a nascondere le occhiaie, a nascondere la pancia e la pazzia, a annunciare che sono ancora felici, che fanno ancora l’amore, che non hanno paura, che è stato terribile, sì, ma l’hanno superato bene e no, non ci pensano più, non ci pensano proprio più, non piangono mai nel buio della loro stanza, non hanno mai la sensazione di morire. Potrebbero dirlo, gli uomini, che hanno sbagliato parecchio, che sbaglieranno ancora, che non sanno voler bene più di tanto, che non sono mai all’altezza del modello che nei secoli si sono disegnati, che ogni gioia si accompagna a una fatica, che l’amore fa anche male e che anche ieri, proprio ieri che nessuno li vedeva, chiaramente hanno pensato di non farcela. Che gli mancano la mamma e il babbo o i figli, che gli manca una parola che sia adatta a non fare andare via quelli che amano. Qualcuno dovrebbe prenderli sulle ginocchia, questi folli custodi del tutto, e dirgli che sono stati bravissimi, veramente, ad andare sulla Luna e a curare il vaiolo, a costruire apparecchi per parlare oltre gli oceani e le montagne, a concepire diete e tagli di capelli, sono stati bravi, commoventi, e si sono meritati di fermarsi. Che sarebbe molto meglio confessarsi: e va bene, qualche volta piango anch’io. Ho gli attacchi di panico ogni giorno. Ho mentito quando ho detto che volevo diventare un ingegnere, un astronauta, un cantante o un pizzaiolo. E va bene, ok, non me ne frega niente: voglio solo che mi vogliano un po’ bene.
E qualcuno glielo dica, con il cuore, che davvero non si sforzino a esser Dio. Che nel loro zoppicare e un po’ morire, sono già quello che a Dio va più vicino

giovedì 17 settembre 2015

Non saresti tu


E niente, volevo dirti
che forse la vita è questa.
Adesso io sono pronta,
adesso posso capirti,
nell’anima ci ho una festa.
Adesso so cosa conta:
capire che non sei mio.
Si può contenere il mare?
Potresti fare di più
(potrei farlo pure io)
però non me ne parlare:
che poi non saresti tu.

mercoledì 16 settembre 2015

Il primo giorno a scuola

Il primo giorno a scuola:
un innamoramento.
Schiarirsi un po' la gola,
nascondere il fermento...
Mi chiameranno strega,
però chi se ne frega.
Lo so che sarà dura,
che a volte ci odieremo,
che spesso avrò paura,
che arriverò allo stremo:
da sempre amore e morte
son nella stessa sorte.
Innamorarsi è uguale.
Condanna dolce amara,
lo so che farà male
ma che non sarà avara.
Da quando ci guardiamo
non "sono" più ma "siamo".

domenica 6 settembre 2015

Settembre


Settembre, se fosse un momento,
sarebbe le sei del mattino
perché custodisce un intento,
ha l’animo ancora bambino,
e se fosse un pasto, di certo,
sarebbe la mia colazione:
un nuovo barattolo aperto,
le fette, del tè col limone,
e fuori la strada rivive.
Che razza di giorno ci attende?
Settembre e le sue aspettative.
Un popolo che non si arrende.
Settembre è la strofa iniziale,
l’attacco, l’esordio, la nota,
lo sparo, la marcia nuziale.
Non c’è cuore che non si scuota.
Il buio che c’era c’è ancora,
ma non ha più il nostro controllo:
siam fatti per altro. L’aurora.
Lo schiudersi. L’alba. Il decollo.

sabato 5 settembre 2015

Da grande voleva fare la scrittrice


Da grande voleva fare la scrittrice, e quel giorno le avevano regalato un quaderno nuovo, ancora da cominciare. Doveva essere piuttosto vecchio, a dire il vero, perché il nonno lo aveva trovato nel capanno degli attrezzi tra la legna, le cartacce e le altre cose da bruciare: aveva le pagine ingiallite e la copertina macchiata, ma di un cartone grosso che – ne era certa – non l’avrebbe delusa, e avrebbe custodito qualche buona storia. Da grande voleva fare la scrittrice. Era così da sempre, perché scriveva anche quando pensava: le cose diventavano più vere dopo averle scritte, quasi sempre più belle, e non c’era nulla che non fosse degno di una pagina scritta. O di una pagina mentale, non faceva differenza. Una volta sua madre le aveva detto che era “una creatura di parole”. A detta sua c’erano persone capaci di catturare con gli occhi ogni più piccolo dettaglio della realtà, e che s’innamoravano del mondo attraverso lo sguardo, ma altre, quelle come lei, si sarebbero sempre fatte incantare dal suono delle cose e avrebbero lasciato le immagini in secondo piano, in un luogo più sfocato che contava tutto sommato poco, davvero poco, rispetto alla musica delle parole.
Le era piaciuto soprattutto essere definita “una creatura”. Da quel giorno si era sentita unica, diversa da ogni altro essere umano. Giocava ad essere l’abitante di un pianeta lontano, o una fata venuta dai boschi, magari capace di parlare con gli animali o di intendersela con le nuvole. Era un gioco che faceva da sola, di cui nessuno sapeva, ma aggiungeva un tale mistero alle sue giornate che credeva non vi avrebbe rinunciato mai più. E forse, prima o poi, si sarebbe davvero scoperta una creatura speciale.

Quel giorno teneva il suo quaderno nuovo aperto sul tavolo di legno, sotto la veranda, ma in realtà si distraeva spesso a guardare i girini nel barattolo di vetro. Lei e sua cugina lo avevano ripulito dalla marmellata di more, il barattolo, e lo avevano usato per catturare i girini dal ruscello dietro casa, standosene sedute sull’asse di un vecchio armadio, incastrata a mo’ di ponte tra le rive. In quei momenti si sentivano come i maschi, i figli del contadino, però sapevano di essere più mature di loro: qualcuno doveva avergli messo dentro una consapevolezza strana, alle donne, o un filo legato a qualche stella dispersa nello spazio. Già lo sapevano, e il fatto che i maschi non sospettassero nulla le faceva sentire complici e libere, felici come chi ha tutto da conquistare.

Avrebbe potuto scrivere la storia di quei girini, che le sembravano macchie d’inchiostro. Magari uno della cucciolata avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di inusuale, mentre gli altri diventavano diligentemente ranocchi: uno solo, diverso da tutti gli altri, forse un po’ magico o solo un po’ sfortunato, si sarebbe evoluto in un pesce o in una sirena, in un uccello nuotatore o in una libellula d’acqua. Gli altri ci sarebbero rimasti male, ne era sicura, e vuoi per ottusità, vuoi per una punta d’invidia, all’inizio lo avrebbero escluso dalla famiglia e lo avrebbero accusato di essere un egocentrico o un pazzo, un pericolo per l’ordine sociale dei girini in un tranquillo barattolo di marmellata. Cercò di dare un nome ai girini, ma non era facile capire quali fossero maschi e quali femmine, e tendevano a mischiarsi di continuo facendole perdere il segno.

Lei si chiamava Greta, ed era un nome che le piaceva. Le pareva un po’ antico, un po’ selvatico e un po’ raffinato. O forse selvatica era solo lei, con quei capelli né ricci né lisci che sembravano sempre appena usciti dal mare, e gli occhi neri come le olive della Sicilia, che aveva raccolto quell’estate di alcuni anni prima. Se c’era qualcosa che la incantava era il fatto che gli alberi dessero frutti commestibili per gli esseri umani. Insomma, non ne sapeva ancora molto di scienze o di biologia, e tantomeno di anatomia, ma sospettava che il corpo fosse una macchina sofisticata, e che nutrirla non fosse proprio una cosa da nulla. Alle piante non glielo aveva detto nessuno – o forse sì – di modellare dei bocconcini con quei sapori e quegli ingredienti, eppure loro erano capaci di inventarsi dei frutti commestibili. Lei ad esempio, se dal nulla avesse voluto creare un’oliva, non avrebbe saputo proprio dove mettere le mani.

Nemmeno la nonna, probabilmente, avrebbe saputo fare un’oliva. E dire che lei era una strega in cucina: lavorava in calderoni di ferro così vecchi da essersi deformati, e ciotole di ceramica consumate dal fuoco. Greta le chiedeva spesso di regalargliene qualcuna, per giocare al ristorante o raccoglierci la terra e costruire un castello, ma la cuoca diceva che gli oggetti hanno un’anima, e una pentola anziana ha già molta esperienza, ed è un’aiutante così perfetta che sarebbe un peccato sbarazzarsene proprio all’apice della sua carriera. Almeno si lasciava aiutare dalla nipote, e le insegnava quei trucchi che nei libri di ricette non dicono mai. La pastella per le zucchine fritte veniva bene con la farina gialla e la birra ghiacciata, e l’insalata si conservava per giorni avvolta in un panno di tela e nascosta in un sacchetto. La carruba aveva il sapore del cioccolato e ci si preparavano frappé squisiti, lo zucchero di canna faceva i biscotti più croccanti e le banane schiacciate rimpiazzavano bene le uova nella ciambella, e la facevano profumare d’estate. Le dava anche qualche lezione di vita, impastando e assaggiando, e Greta la prendeva in giro e rideva, faceva finta che non le importasse. Invece l’ascoltava alla grande, e in fondo lo sapevano entrambe. Due cose non avrebbe mai dimenticato, perché la nonna gliele aveva dette con la voce dei grandi segreti. La prima era che tutto ciò che fai, se lo ami, diventa bello. Come se fosse una questione di scelta. La nonna la vedeva sudare sui compiti di aritmetica e le diceva “Ama l’aritmetica! Amala anche se non ti piace, altrimenti non ti riuscirà mai!”, e con le torte era lo stesso, le trattava come fossero bambine da accudire, e più sembravano bruciacchiate e più le coccolava, ci parlava, faceva in modo che alla fine venissero belle e buone lo stesso. La seconda cosa era che la verità, nei manuali, non viene mai svelata del tutto. Come nei ricettari, era così per ogni aspetto del mondo: meglio diffidare delle istruzioni precise, delle regole ferree e delle etichette indelebili. “Mi stai dicendo che devo essere disubbidiente?” le aveva chiesto con gli occhi furbi, e la nonna aveva riso forte: “Neanche per sogno! Non direi mai niente del genere!” Ma le aveva strizzato l’occhio e avevano riso insieme per un bel po’, mentre passavano l’aglio sulle bruschette, e se qualcuno fosse passato di lì in quel momento avrebbe avuto la sensazione che fossero proprio matte e contente, quelle due.