Chi si chiede cosa si fa qui si rassereni: esattamente non lo sa nessuno.
Io ci metto qualche parola e qualche foto.
Con un'unica regola: solo finché mi fa felice.

giovedì 19 marzo 2020

Quarantena




È l’inizio della primavera e la guardiamo dalle finestre, perché non si può uscire. Casa nostra si affaccia su un parcheggio rettangolare, che nelle sere d’estate si trasforma in una piazzetta per partitelle e piccoli ciclisti, tutta circondata di condomìni. In questi giorni di sole i davanzali, i balconi, sono diventati una frontiera su cui si attende incerti, clandestini, e si spera nel giorno in cui si potrà svalicare. Ci si allunga verso un parcheggio, così banale, d’asfalto, come le cattedrali si protendono verso il cielo. Come le preghiere si arrampicano a convincere Dio, le radici si fanno strada nell’aridità, i girasoli si schiudono verso la luce. 

Appollaiati: è questa la nostra condizione, in questo inizio di primavera. Chi serrava le persiane per custodire l’intimità di dentro, le spalanca. Non c’è più niente da nascondere con quella gelosia sciocca, come se fossimo gli unici a girare per casa un po’ svestiti, come se i vicini non potessero spiare quello che stiamo facendo. Ma cosa staremo facendo mai, di così speciale? Celare non serve più: stiamo in pigiama sul terrazzo e non c’è posto per il pudore, perché guardarci serve a sentirci un po’ un popolo solo. Meno solo, però.

Avrei voluto mettere il basilico in vaso, come ogni anno, e mi disturba non poterlo comprare. L’ho però rimpiazzato con dei piscialetto che non costavano niente e scoppiettavano giù, in mezzo al prato, come petardi gialli nel giardino condominiale. Sono tutti vicini in un’ex boccetta di succo di pera, si aprono al mattino e si chiudono quando comincia a imbrunire. Mattina, sera, cena, letto, mattina e così via, in casa perché non si può uscire, anche noi relegati – o promossi – allo stato dei fiori.

Mi sembra particolarmente chiaro, direi lampante, che la primavera abbia deciso di tornare anche senza di noi. Non mi pare abbia intenzione di aspettarci, né di intristirsi per tutti quelli che muoiono, si ammalano, o semplicemente si angosciano. Eppure mi chiedo se ci siamo mai stati, dentro la primavera, come adesso, con gli uccelli nelle orecchie e, invece, pochissime macchine. Se mai, prima d’ora, le siamo stati meno indifferenti.
Scrivendo le parole mi rincuorano un po’. Noto che indifferenti sembra il contrario di differenti. Siamo differenti, in questo inizio di primavera. Chissà se lo resteremo.

Mi sono chiesta tante volte se l’animale prevalga, in noi, o se vinca quel qualcosa d’altro, di umano, di diverso da ogni forma vivente. Oggi sento molto l’umano che è in noi. Prepotente ci viene schiaffato in viso il messaggio, certo, che in questa fragilità del momento non siamo nessuno, niente più degli altri pezzi di mondo che compongono la realtà intera, il creato e la vita. Eppure… Eppure. Eppure, in un evento naturalissimo e così inospitale, non trovo disarmonia tra noi e la natura: ci siamo dentro fino al collo, con lei. Ci sorprendiamo ad accettarne i ritmi e le leggi e a desiderarla immensamente, a volerla tutta attorno a noi più delle nostre case accoglienti. Ed è evidente, però, che non siamo animali. Abbiamo bisogno di tutti quegli artifici che ci siamo costruiti nel tempo, frutto di cervelli e di cuori ingegnosi: della scuola, il lavoro, le biblioteche, i cinema, le palestre, i teatri, i giardini, le strette di mano e l’apertura delle portiere, il pago io questa volta, il ci vediamo domani, facciamo una pausa caffè.

Amo il cielo e il frusciare dei campi, ma ho nostalgia degli occhi dei miei simili. Di chi contempli la primavera con me.