È l’inizio
della primavera e la guardiamo dalle finestre, perché non si può uscire. Casa
nostra si affaccia su un parcheggio rettangolare, che nelle sere d’estate si
trasforma in una piazzetta per partitelle e piccoli ciclisti, tutta circondata
di condomìni. In questi giorni di sole i davanzali, i balconi, sono diventati
una frontiera su cui si attende incerti, clandestini, e si spera nel giorno in
cui si potrà svalicare. Ci si allunga verso un parcheggio, così banale, d’asfalto,
come le cattedrali si protendono verso il cielo. Come le preghiere si
arrampicano a convincere Dio, le radici si fanno strada nell’aridità, i
girasoli si schiudono verso la luce.
Appollaiati: è questa la nostra
condizione, in questo inizio di primavera. Chi serrava le persiane per
custodire l’intimità di dentro, le spalanca. Non c’è più niente da nascondere
con quella gelosia sciocca, come se fossimo gli unici a girare per casa un po’
svestiti, come se i vicini non potessero spiare quello che stiamo facendo. Ma
cosa staremo facendo mai, di così speciale? Celare non serve più: stiamo in
pigiama sul terrazzo e non c’è posto per il pudore, perché guardarci serve a
sentirci un po’ un popolo solo. Meno solo, però.
Avrei
voluto mettere il basilico in vaso, come ogni anno, e mi disturba non poterlo
comprare. L’ho però rimpiazzato con dei piscialetto che non costavano niente e
scoppiettavano giù, in mezzo al prato, come petardi gialli nel giardino
condominiale. Sono tutti vicini in un’ex boccetta di succo di pera, si aprono
al mattino e si chiudono quando comincia a imbrunire. Mattina, sera, cena,
letto, mattina e così via, in casa perché non si può uscire, anche noi relegati
– o promossi – allo stato dei fiori.
Mi sembra
particolarmente chiaro, direi lampante, che la primavera abbia deciso di tornare
anche senza di noi. Non mi pare abbia intenzione di aspettarci, né di
intristirsi per tutti quelli che muoiono, si ammalano, o semplicemente si
angosciano. Eppure mi chiedo se ci siamo mai stati, dentro la primavera, come
adesso, con gli uccelli nelle orecchie e, invece, pochissime macchine. Se mai,
prima d’ora, le siamo stati meno indifferenti.
Scrivendo
le parole mi rincuorano un po’. Noto che indifferenti sembra il contrario di differenti.
Siamo differenti, in questo inizio di primavera. Chissà se lo resteremo.
Mi sono
chiesta tante volte se l’animale prevalga, in noi, o se vinca quel qualcosa d’altro,
di umano, di diverso da ogni forma vivente. Oggi sento molto l’umano che è in
noi. Prepotente ci viene schiaffato in viso il messaggio, certo, che in questa
fragilità del momento non siamo nessuno, niente più degli altri pezzi di mondo
che compongono la realtà intera, il creato e la vita. Eppure… Eppure. Eppure,
in un evento naturalissimo e così inospitale, non trovo disarmonia tra noi e la
natura: ci siamo dentro fino al collo, con lei. Ci sorprendiamo ad accettarne i
ritmi e le leggi e a desiderarla immensamente, a volerla tutta attorno a noi
più delle nostre case accoglienti. Ed è evidente, però, che non siamo animali. Abbiamo
bisogno di tutti quegli artifici che ci siamo costruiti nel tempo, frutto di
cervelli e di cuori ingegnosi: della scuola, il lavoro, le biblioteche, i cinema,
le palestre, i teatri, i giardini, le strette di mano e l’apertura delle
portiere, il pago io questa volta, il ci vediamo domani, facciamo una pausa
caffè.
Amo il
cielo e il frusciare dei campi, ma ho nostalgia degli occhi dei miei simili. Di
chi contempli la primavera con me.